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Barbara

10 cose (di marketing) da fare se hai un negozio

Marzo 20, 2020 da Barbara

Il mio 2020 è cominciato negli Stati Uniti, in Georgia. Sono stata invitata insieme ad Annette da AmericasMart a tenere una conferenza dedicata agli ospiti dell’Atlanta Market di gennaio.

Americas Mart è la più grande organizzazione statunitense di fiere dedicate agli operatori professionali del commercio nel settore lifestyle. Il loro Atlanta Market di gennaio è il salone di riferimento per i negozi di oggettistica, décor e lifestyle. Praticamente un Maison et Objet a cui partecipano tutti i negozi degli Stati Uniti per scoprire le tendenze dell’anno e fare rifornimento di merce.

L’intervento mio e di Annette è stato il 16 gennaio e qui puoi leggere il suo racconto. Ho pensato che in questo periodo di stop potesse valere la pena ripassare i contenuti del talk, perché non sono affatto sorpassati!

Dieci semplici consigli per negozi, per farsi spazio e tenere il passo online nel 2020

I consigli che seguono sono il frutto dell’esperienza maturata da Annette lavorando con marchi e negozi, della nostra comune esperienza con l’editoria di settore e delle mie competenze di marketing. A moderare e guidare la conversazione è stata chiamata Kelli Lamb, direttrice della rivista online Rue.

L’intervento è stato pensato soprattutto per i proprietari e buyer di negozi indipendenti fisici di interni e oggettistica, quindi non è adatto a te se hai un negozio che fa parte di una catena o un franchising, o se hai solo un ecommerce.

Confesso che per me è un motivo di orgoglio riguardare gli appunti adesso, a distanza di qualche mese ma in un mondo completamente diverso, e scoprire che i consigli che abbiamo concepito siano ancora utili e validi. Spero che se hai un negozio ti possano aiutare a sopravvivere nei prossimi mesi. Più avanti pubblicherò un approfondimento sull’esperienza cliente in negozio che conterrà consigli più pragmatici per questa nuova stagione pandemica.

1. Fai pace col cambiamento continuo

Atlanta Market 2020 Talk - 1 cambiamento

Qualsiasi modello di business recente deve tenere conto dell’accelerazione vertiginosa del cambiamento in quasi ogni mercato. Inutile pensare di far nascere un’attività e mantenerla esattamente uguale per più di qualche mese. Prima fai pace con questo concetto, meglio potrai prepararti ad affrontare i cambiamenti senza subirli.

2. Scopri la tua nicchia

Atlanta Market 2020 Talk - 2 nicchia

L’avrai sentito dire milioni di volte, ma vale sempre la pena ripeterlo, se ancora aprono attività e negozi con vocazione generalista. Neanche la GDO è generalista ormai. I grandi ipermercati sono in declino e i compratori sono sempre più alla ricerca dell’esperienza di riconoscersi nello spazio in cui comprano.

Non solo, prima ti chiarisci le idee su quale sia la nicchia di mercato con cui vuoi lavorare, più semplice sarà cominciare a sviluppare una comunicazione genuina e adatta a quel pubblico. La tua voce non è altro che questo: un insieme di tono, registro e contenuti che parlano della tua cliente, prima ancora che a lei.

3. Dai una forma riconoscibile alla tua marca

Atlanta Market 2020 Talk - 3 marchio

L’idea di business che sta dietro il tuo negozio ne influenza lo stile ed è fondamentale che il marchio con cui ti presenti li rifletta completamente. È il modo più veloce per essere trovati e riconosciuti dal pubblico giusto.

Va da sé che quando si parla di marca, si intende non solo il marchio ma anche tutte le sue incarnazioni. Insegna, colore delle pareti, allestimento del negozio, packaging, devono raccontare tutti la stessa storia, per essere efficaci.

4. Ragiona come un concept store

Atlanta Market 2020 Talk - 4 concept

Nel settore del lifestyle, il negozio che vende un unico tipo di merce al giorno d’oggi perde un’occasione.

Il discorso è complesso e meriterebbe pagine e ore, soprattutto se pensiamo che i più famosi concept store aperti alla fine degli anni Novanta in molti casi hanno fallito (ma Merci a Parigi no, per dire). Per farla brevissima, in un mondo in cui le merci si possono comprare online a prezzi spesso più competitivi, l’esperienza è determinante. E le esperienze, abbracciando sensi diversi e stimolando diversi percorsi neurologici, non possono essere tenute diligentemente separate in compartimenti merceologici.

5. Pensa lo spazio in funzione dell’esperienza

Atlanta Market 2020 Talk - 5 spazio

È fondamentale che l’esperienza della tua cliente sia memorabile, se vuoi che ritorni e che la prossima volta non compri online ciò che ha trovato da te. Il primo tassello fisico e disegnabile di questa esperienza è lo spazio.

Progetta i tuoi negozi pensando a ogni fase dell’esperienza della tuacliente, cercando modi per renderla fluida, piacevole e soddisfacente. I punti caldi possono variare a seconda della merce che vendi, ma le fasi di ricevimento, esplorazione, pagamento e ritiro/consegna sono sempre fondamentali.

6. Allestisci la merce in funzione di Instagram

Atlanta Market 2020 Talk - 6 allestimento

Prima ancora di investire parte del tuo budget pubblicitario online, progetta un negozio che le tue clienti abbiano voglia di fotografare e pubblicare nel proprio feed di Instagram.

Disponi i prodotti in piccole composizioni acchiappa-like e organizza l’assortimento in modo che anche gli scaffali siano organizzati e belli a vedersi. Poi fai sapere alle tue clienti che sono le benvenute a scattare foto e condividerle, rendiglielo facile da subito affiggendo una segnaletica ben disegnata con il tuo permesso e il tag che possono usare per pubblicizzarti. E ringrazia.

La triste verità è che se qualcuno vuole scattare una foto a un prodotto che hai per comprarlo altrove lo farà comunque. Inutile spendere energie negative a cercare di impedirglielo.

7. Vendi su Instagram

Atlanta Market 2020 Talk - 7 vendere su Instagram

Già che le tue clienti ti fanno pubblicità su Instagram, rendi la vita ancora più facile alle loro seguaci che si innamorano dei tuoi prodotti!

Usa la funzione Catalogo del colosso Facebook/Instagram per creare una vetrina Instagram con schede per i tuoi prodotti e foto di prodotto chiare ed esaustive (la modalità still life è la più indicata). Poi popola il tuo feed di immagini con i tuoi prodotti ambientati, che possano ispirare le potenziali clienti mostrando come ogni oggetto potrebbe vivere nei loro spazi. Tagga i prodotti e voilà!

8. Semplifica l’esperienza delle clienti

Atlanta Market 2020 Talk - 8 esperienza

Ormai l’avrai capito, più rendi facile la vita alle tue clienti, meglio è. Basta costringerle a venire in negozio per fare scorta della loro candela preferita! Invitale a venirti a trovare solo quando hai qualcosa di nuovo da toccare con mano.

Per farlo, continuando a vendere, bisogna che tu metta insieme un’esperienza che comincia in negozio, magari mettendo in mostra campioni di tutti i tuoi pezzi, esposti in modo da creare ambientazioni piacevoli da esplorare, e che continua online o in abbonamento o con consegne a domicilio.

9. Crea nuove esperienze

Atlanta Market 2020 Talk - 9 esperienza

Insomma, crea nuove modalità di acquisto che vengano incontro alle esigenze delle tue clienti. I programmi fedeltà e le schede clienti devono fornirvi dati utili a servire meglio chi compra, ricordando loro solo i nuovi arrivi che davvero ameranno, permettendo loro di spendere al meglio i loro soldi.

Gli abbonamenti ai loro prodotti consumabili preferiti (candele, cosmetici, cancelleria), magari consegnati a domicilio in prossimità della scadenza dell’acquisto precedente, le legheranno a te per i motivi migliori.

10. Accogli le clienti

Atlanta Market 2020 Talk - 10 benvenuto

Infine, quando sarà possibile, apri le porte del tuo negozio per eventi unici e davvero interessanti, non solo l’ennesimo lancio di prodotto. Dai un motivo forte e coinvolgente di venirti a trovare a chi ti lascerà i suoi soldi. Mi pare il minimo.

Cosa ne dici? Hai un negozio e hai già testato alcuni di questi consigli? Se ti va scrivimi su Instagram per raccontarmelo.

Archiviato in:cose di strategia Contrassegnato con: allestimento, assistenza clienti, commercio, conferenze e lezioni, negozi fisici

Cosa vuol dire per me progettare uno stile di vita

Marzo 6, 2020 da Barbara

Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana, prima di avere un esaurimento, organizzavo matrimoni. Avevo un modello di business straordinariamente personale eppure del tutto insostenibile psicologicamente. Come spesso mi accade non avevo fatto tesoro dei miei stessi consigli, o lo avevo fatto solo in parte.

A distanza di quasi tre anni, pur non avendo risolto tutti i miei errori di allora, posso dire di essere riuscita a disegnarmi uno stile di vita sostenibile e che mi fa stare bene. Non a caso parlo di stile di vita e di disegnarlo, perché ho sempre l’impressione che parlare di organizzazione, tempo, e vita o lavoro sia riduttivo e limitante.

Qui è dove mi prendo lo spazio per spiegare compiutamente di cosa parlo quando parlo di progettare uno stile di vita.

Sono arrivata a pensare in termini di “lifestyle design” nel 2016, per lanciare una serie di servizi personali di strategia e organizzazione (sono di nuovo disponibili, qui). Si trattava di consulenze create intorno alle mie capacità di organizzazione, alle mie conoscenze di strumenti utili a pianificare e dare forma alle strategie, e al mio approccio incondizionatamente dalla parte dei miei clienti.

Per la prima volta avevo deciso di mettere tutto questo al servizio di ogni donna che avesse difficoltà a ritagliarsi una vita che rispecchiasse davvero la propria identità e i propri desideri, senza farsi influenzare dalle aspettative esterne.

Cosa intendo per lifestyle design

A prescindere dalla scelta del 2016 di un termine inglese per amore di brevità, il concetto di “disegnarsi uno stile di vita” mi piace per diversi motivi.

Tanto per cominciare quando si parla di stile di vita il lavoro non è necessariamente centrale.

Trovo che gli approcci che danno per scontato che la vita di una persona sia determinata dalla sua professione, da ciò che fa per lavoro, partano di per sé con un bias culturale che rischia di silenziare le reali aspirazioni della persona.

Per intenderci, il percorso Designing your life di Dave Evans e Bill Burnett, giunto a fama planetaria proprio nel 2016 con un libro dallo stesso titolo, pur parlando di “vita”, è pensato per aiutare le persone a trovare una vocazione professionale che permetta loro di avere una vita “gioiosa” e “piena”.

Ma cosa succede se una persona, legittimamente, preferisce costruire la propria vita intorno a un’altra vocazione, non lavorativa? Cosa succede a chi sceglie un lavoro manuale e ripetitivo solo per avere uno stipendio e poi dedicare il proprio tempo libero ad altro? Un’autista di autobus non ha la possibilità di vivere una vita “gioiosa” e “piena”?

Il concetto che la vita di ciascuno di noi sia fortemente determinata dal lavoro che facciamo è molto culturalmente definito (a dirla tutta, molto Statunitense). Ma io, per esempio, non mi ci identifico affatto. Non ritengo che ciascuno di noi sia definito da ciò che fa, ma da ciò che è. Persino le persone per cui il lavoro è il cardine della propria esistenza (e per loro il metodo Evans e Burnett è sicuramente indicato) secondo me sono in quella condizione perché hanno fatto una scelta consapevole che deriva dalla loro identità.

Ma al contrario da ciò che Evans, Burnett e generazioni di motivatori Statunitensi pensano, il lavoro che scegliamo non può sempre essere determinato dalla nostra vocazione e motivazione. Spesso dipende da altri fattori, come la fortuna e le opportunità, che come sappiamo non sono pari per tutti, dalle scelte che altri fanno per noi, dal nostro genere, dal colore della nostra pelle, dall’accento con cui parliamo la lingua del paese in cui decidiamo di vivere. E potrei andare avanti.

Quello che nessuno può influenzare, se non glielo permettiamo, che non dipende così pesantemente da fortuna, tempismo, e scelte altrui, è la nostra identità. Chi siamo.

Quando parlo di stile di vita io intendo precisamente l’applicazione dell’identità di ciascuno di noi alla sua vita.

E questa scelta, lo scopo (anche non professionale) che abbiamo nella vita, con chi decidiamo di stare, quello che decidiamo di fare del nostro tempo, può compierla liberamente chiunque, a prescindere dalle sue scelte professionali.

Perché non parlare di vita e basta, allora? Perché la vita, come il lavoro, non dipendono soltanto da noi. Non viviamo in un tunnel di plexiglass che corre verso il nostro obiettivo, ma in ecosistemi fluidi in cui le scelte microscopiche di un bambino dall’altra parte del mondo possono avere ripercussioni anche su quello che succede a noi.

Pensare di poter controllare e influenzare complessivamente la propria vita, in ogni sua singola unità di tempo, è arrogante e del tutto irrealistico. Meglio quindi concentrarsi sullo stile che vogliamo che abbia, sulle sue linee guida. Sapere la direzione in cui ci vogliamo muovere, senza voler definire ogni singola tappa, ci permette di rimanere flessibili lungo il percorso e più reattivi agli imprevisti.

Nel 2016 non sapevo nulla del metodo di Evans e Burnett perché del libro ancora non si parlava in Italia, ma la scelta di usare il verbo “design” nel senso di “progettare” e pianificare insieme, per me è stata programmatica.

Il mio “design” non è un metodo, non suggerisco di applicare il design thinking alla costruzione del proprio stile di vita. Prima di tutto perché ritengo che non esista un unico metodo per fare le cose correttamente, proprio come non esiste un metodo adatto a tutti per imparare una certa disciplina.

La mia progettazione è un approccio, piuttosto.

Disegnare per me è tracciare su carta i confini di un’esistenza che ci farà sentire realizzati, per creare uno schema dentro cui muoverci più sicure, libere dal panico da pagina bianca che spesso ci porta a guardare più facilmente al passato che al futuro.

La metafora della scrittura per lo stile di vita ha sempre avuto grande risonanza per me, non a caso ho trovato una frase di Luisa Carrada relativa alla scrittura che spiega benissimo il mio approccio allo stile di vita:

Il segreto per non cadere preda dell’ansia e del blocco della pagina bianca è… non avere davanti una pagina bianca. Riempiamola con il programma di viaggio, che definiremo via via con maggiore precisione. Non limita la nostra libertà, ci sbarazza invece di qualche patema d’animo.

– Luisa Carrada, Scrivere, che bello!

Un approccio per femmine

Come quando parlavo di lifestyle design nel 2016, anche quando lo faccio oggi mi riferisco a una consulenza per donne. Non è una questione di semplice posizionamento, ma è una scelta che si fonda sulla convinzione che le persone che più hanno bisogno di un percorso di “progettazione di stile di vita” siano femmine. Donne dalla nascita o dalla loro scelta di diventare donne, poco importa.

Le aspettative e gli sguardi del mondo sono innegabilmente più pesanti sulle spalle delle femmine della nostra razza, non foss’altro perché la biologia apparentemente fa gravare su di noi l’obbligo della procreazione. Anche per quello il corpo delle donne è terreno di battaglia dalla notte dei tempi.

Per una femmina (mi ostino a dire femmina e non donna perché questo è un discorso di genere, non solo di sesso) progettare uno stile di vita è anche un’azione politica, proprio perché spesso si dà per scontato che non ci sia nulla da progettare. Al massimo da scegliere se vuole una famiglia o no (e anche lì la “scelta” è raramente libera).

Offrire una consulenza di questo tipo solo alle femmine non è un modo per dire che la responsabilità di tenere in equilibrio le scelte di vita resta alle donne, è invece un modo per permettere loro di giocare ad armi pari, di offrire gli strumenti per scegliersi dei percorsi di vita senza farsi influenzare dalle aspettative, le opinioni e le richieste degli altri.

Nell’ultimo anno ho ricominciato a offrire consulenze di lifestyle design, e ora sono di nuovo prenotabili anche sul mio sito. Spero che questo post abbia chiarito cosa si cela dietro questa definizione di comodo. Soprattutto vorrei che avesse chiarito cosa non vuole essere.

Il lifestyle design non è né coaching né terapia né organizzazione personale

Non è coaching, perché non c’è alcun rapporto gerarchico tra una guida (io) e un’allieva.

In un percorso di lifestyle design tutte le analisi, le risposte, le decisioni e le scelte sono in mano alla persona che lo affronta. Il mio ruolo di consulente si esaurisce nel mettere a disposizione strumenti, cercarli quando ancora non sono noti, e offrire domande e ascolto, una cassa di risonanza per le scelte di chi affronta il percorso.

Potresti farlo da sola? Ovviamente sì, non ho inventato niente in termini di strumenti. Ma il mio contributo tutto personale è la capacità di ascoltare senza giudicare, davvero. Perché “vale tutto” per me è un principio guida.

Non è terapia perché non ha alcuna ambizione di risolvere o “curare” patologie, disagi, disturbi psicopatologici, di fare emergere aspetti inconsci.

Un percorso di progettazione è del tutto consapevole e attivo. Attinge sì a riflessioni, emozioni, desideri ma per lavorare sul fuori da noi, sull’impatto che possiamo avere su ciò che ci circonda. Non è un lavoro sul sé, ma sulla manifestazione di quel sé.

Ti serve una psicoterapia? Anche senza conoscerti per me la risposta è sempre sì. Un percorso di psicoterapia, qualsiasi tu ti possa permettere in termini di tempo, denaro, energia, servirebbe a tutti, secondo me.

Non è organizzazione personale perché non presuppone che si parta da un punto di partenza di disorganizzazione, da risolvere con l’applicazione di un metodo chiaro e univoco.

Un percorso di lifestyle design può avere senso anche quando pur essendo persone organizzate dobbiamo rivedere il nostro stile di vita nel suo complesso. E può capitare di dover ripetere un percorso di lifestyle design nel corso della vita, perché siamo cresciute o abbiamo cambiato idea o sono cambiate radicalmente le nostre circostanze.

Ti insegna a organizzarti? In parte sì, ma non è detto. Perché non è detto che sia un elemento che ti serve. È una consulenza e anche per questo si modula sulle reali esigenze di chi la richiede.

Spero di essere stata chiara e completa. Se così non fosse mi raccomando scrivimi e chiedi!

Archiviato in:cose di organizzazione Contrassegnato con: cura di sé, motivazione, pianificazione, trovare uno scopo

Femminismo, sorellanza e solidarietà femminile

Febbraio 21, 2020 da Barbara

Piccolo disclaimer: ho cominciato a scrivere questo post nel 2019 e l’ho portato avanti a febbraio, nei tempi giusti. Poi non l’ho finito di scrivere fino al 15 aprile 2020. Lo trovate qui, datato con la data che doveva avere originalmente perché ci tenevo che apparisse così per chi in futuro andrà a cercare cosa succedeva in quelle settimane quando ancora non ci eravamo accorti di essere in una pandemia globale. Ecco, io pensavo a queste cose qui.

È febbraio, diventerà marzo tra 10 minuti e ci ritroveremo tutti in guerra. Tra donne che non vogliono essere festeggiate un giorno per poi essere dimenticate gli altri 364, uomini che non sanno se la mimosa guadagnerà loro un sorriso o una sgridata, altre donne che prenotano la “donnata” con colleghe che conoscono poco perché in realtà di amiche vere non ne hanno.

Nonostante il mio diffuso ottimismo esistenziale, le questioni di genere sono un argomento che tende a tirare fuori la nichilista dentro di me, ed erano due anni che avevo in mente di scriverne sul blog.

In particolare avevo in mente di parlare di tre cose che in questo periodo si tendono a sovrapporre con facilità, eppure che raramente vanno a braccetto: femminismo, sorellanza e solidarietà femminile.

Che è una cosa abbastanza illogica, se ci pensiamo.

Per come la vedevo io da adolescente, doveva funzionare più o meno così: qualsiasi donna sia femminista dovrebbe volere parità di diritti per tutto il genere, e per naturale conseguenza sentirsi parte di un gruppo paritetico (una sorellanza, appunto) e dimostrare a tutte le altre donne in difficoltà solidarietà e supporto.

Poi però sono cresciuta, sono entrata nel mondo del lavoro, e ho scoperto che molte donne fieramente (o rumorosamente) femministe si battono soprattutto per il proprio diritto a un pari trattamento, non necessariamente per quello delle altre.

Ho scoperto che se in un’azienda una donna arriva in posizioni manageriali lo fa a volte anche facendo finta di non essere una donna, mimetizzandosi tra gli uomini, assicurandosi che dopo di lei nessun’altra abbia le stesse opportunità. Che non si sa mai il suo successo sia dovuto a una quota rosa che una collega potrebbe usurpare. La rabbia quando ho visto queste cose si è sempre mescolata a compassione per la povera crista che, raggiunto un traguardo importante dopo infiniti sacrifici, non riesce a levarsi dalla testa di non averlo meritato davvero.

Ho partecipato a riunioni di CNA Impresa Donna e sentito diverse imprenditrici parlare dei congedi di maternità e delle scelte di vita delle dipendenti esattamente come fanno molti imprenditori uomini. Anche qui ho spesso osservato in silenzio colpevole (perché il silenzio di fronte alle ingiustizie è sempre colpevole, di questo sono consapevole) misto a tristezza per le opportunità di fare la differenza perse da donne pur in gamba e coraggiose.

E poi è arrivato Instagram. Dove puoi ritrovarti tuo malgrado a soffiare il fidanzato a una cara amica (letteralmente sotto il suo naso, dentro casa sua), che per carità son cose che possono pure succedere a tutte, mi dicono, ma se ci fosse un barlume di spirito di sorellanza come minimo alla prima avvisaglia di amore ricambiato metteresti le carte in tavola con l’amica, chiederesti scusa, ti sentiresti una merda. Invece su Instagram puoi fare ennemila post sul femminismo, proclami di valori altisonanti, raccogliere i complimenti delle fan che ti vedono come una vate e lasciare che quel coglione vigliacco del fidanzato se la veda con la tua amica mentre i tuoi post ti hanno lavato la coscienza. O hanno semplicemente contribuito a pulirti l’immagine.

Il caso qui sopra è un caso super reale successo l’anno scorso a persone che sospetto conosciate anche voi che mi leggete. Quando ho messo in calendario questo post l’ho fatto con l’intenzione di scriverlo coi nomi e i cognomi per due motivi:

  1. prima di tutto perché trovo davvero osceno che una persona possa trarre profitto da un’immagine morale finta. La donna che ha soffiato il fidanzato all’amica ha un’attività in cui i suoi valori personali sono al centro della proposta commerciale. Quei valori sono un falso;
  2. poi perché il silenzio è colpevole, e non dire ad alta voce che quel che era successo era sbagliato mi faceva sentire colpevole, stare fisicamente male. Non puntare il dito contro quella falsità mi sembrava colpevole perché ne diventava complice.

Ma in questo post i nomi e i cognomi non ci sono, alla fine, perché pensando agli intrecci tra femminismo, sorellanza e solidarietà femminile, mi sono resa conto di una cosa: che il fidanzato coglione e vigliacco non ci avrebbe rimesso dall’essere esposto.

Se il femminismo è battersi per raggiungere pari opportunità, non necessariamente gli stessi uguali diritti ma diritti equivalenti. Se la sorellanza ci aiuta a sentirci tutte nella stessa barca. Se la solidarietà femminile si manifesta nell’offrire una mano quando l’altra inciampa, nello starle di fianco per aiutarla a difendersi dai colpi, nel farle la scaletta per aiutarla a salire con noi.

Se insomma queste tre cose sono davvero interconnesse (e per me lo sono), questo post ha l’opportunità di ricordarcelo tra noi, e di provare a cancellare il ricordo di tutte quelle volte in cui altre donne mi hanno fatto dire “preferisco lavorare/stare con uomini che almeno so come difendermi.”

La donna che sta andando in giro con la morale falsa se la veda con la sua coscienza, alla quale dovrà spiegare non tanto come abbia fatto a innamorarsi del compagno di un’amica (che gli errori li facciamo tutte), quanto perché non abbia avuto il coraggio e la sensibilità di affrontare la cosa da donna, invece che da uomo.

Archiviato in:cose nonsense Contrassegnato con: femminismo

Styling icon: Annette Joseph

Febbraio 7, 2020 da Barbara

Annette Joseph

Quando ho ricominciato a scrivere in un blog tutto mio, il primo appunto che ho preso è stato per una serie di spot sulle mie Styling Icon, stylist e art director che ammiro e a cui guardo per ispirazione e consigli. Sono tutte donne, alcune vicine e altre lontane, alcune ho la fortuna di conoscerle personalmente.

Poi c’è Annette Joseph, che non solo è diventata una carissima amica e una persona con cui collaborare a progetti speciali, ma con la quale ho scoperto di avere un’affinità particolare.

foto di Infraordinario

Questo post serve a raccontarti qualcosa di quel che facciamo insieme, ma soprattutto a imparare da lei e dalla nostra storia comune.

Non includerà consigli di styling, ma vere e proprie lezioni di vita che per me sono diventate sostegno importante dei progetti creativi che intraprendo. Per questo ho pensato valesse la pena condividerle a benefici di chiunque abbia un mestiere creativo.

Ho cominciato a seguire Annette su Instagram intorno al 2015, perché avevo ripescato un vecchio post da Design*Sponge dove si mostrava il suo appartamento di Alassio, e da lì al progetto lampo che aveva realizzato per Gwyneth Paltrow il passo è stato breve. Fino a quel momento avevo conosciuto il lavoro di Annette come stylist e producer di servizi fotografici di intrattenimento, ma scoprire l’estensione della sua versalità e riconoscermi a istinto in certe scelte stilistiche hanno fatto sì che cominciassi a seguirla con più assiduità.

Seguite con attenzione le persone con cui sentite reali affinità, a prescindere dai milioni o meno di follower e dalla fama.

– Barbara Pederzini

Nell’estate del 2016 Annette ha cominciato i lavori di ristrutturazione della sua nuova casa italiana, La Fortezza. Avevo da poco vissuto in diretta l’esperienza di due miei clienti, che avevano acquistato un rudere nelle colline modenesi salvo poi scoprire che non fosse abitabile. Così, quando ho visto che Annette su Instagram raccontava di qualche tribolazione, ho fatto come faccio quando ne ho l’occasione: mi sono fatta viva con un consiglio utile. Non fomulato in modo fastidioso (tipo “dovresti fare così”) ma con cortesia e autentica voglia di aiutare (“complimenti, che meraviglia, se non l’hai ancora fatto verifica anche questa cosa per sicurezza”). Annette mi ha risposto inviandomi la sua email e suggerendo di rimanere in contatto siccome avevamo professioni simili e Modena è abbastanza vicina a Fivizzano.

Quando contattate qualcuno che ammirate fatelo offrendo qualcosa che sia utile a loro, disinteressatamente. Non importa se a breve non riscuotete benefici, quello che conta è la relazione che instaurate.

– Barbara Pederzini

Nella primavera del 2018, vedendo come stava venendo meravigliosamente la ristrutturazione della Fortezza, ho proposto a Giusi Silighini (allora direttore di CasaFacile) di provare ad avere l’esclusiva per il primo servizio fotografico dedicato alla dimora di Annette. Armata della conferma dell’interesse della rivista, ho coinvolto Chiara Battistini e Sara Guarracino (in arte Infraordinario), con le quali da tanto parlavamo di affrontare insieme un progetto di interni. Così, vestito il ruolo di producer, ho scritto ad Annette per proporle il progetto.

foto di Infraordinario

Qualche tempo fa, io e Annette ci siamo trovate a parlare delle ricerche generiche che a volte riceviamo, e lei mi ha raccontato della frustrazione quando si tratta di certe richieste di collaborazione. “La verità è che niente mi fa passare la voglia di leggere come una lunga e confusa email. Cinque frasi dovrebbero essere sufficienti per presentarti e farmi la tua domanda,” mi ha detto. Inoltre le persone spesso sembrano aspettarsi che sia lei a dover avere l’idea del progetto su cui collaborare. Chiunque abbia una ruolo creativo e un po’ di visibilità è espostǝ a questo genere di richieste generiche… e sa quanto spesso risultano fastidiose invece che ispiranti.

Per me qualsiasi progetto deve supportare il mio brand in questo periodo. Se un’azienda mi contatta per promuovere i suoi prodotti, deve essere affine al marchio Annette Joseph altrimenti è un no. Alla fine della fiera, per essere ispirata devo innamorarmi del prodotto, di come ci si sente a usarlo, della visione con cui è stato creato.

– Annette Joseph

Lo stesso vale per i progetti collaborativi.

Oltre al modo in cui ho presentato la mia proposta ad Annette, c’erano due elementi fondamentali in questa particolare avventura che in seguito ho scoperto essere assolutamente in linea con il suo approccio. Guardando indietro, è anche esserci riconosciute nelle rispettive strategie di lavoro che ha fatto sì che ci trovassimo immediatamente così bene insieme.

Un progetto divertente e d’ispirazione

Fin dall’inizio La Fortezza mi ha attirato perché combina caratteristiche che amo negli interni con un approccio all’allestimento che secondo me può ispirare chiunque.

Da un lato, la mia affinità creativa con Annette mi ha reso semplice lavorare sugli ambienti che aveva arredato, e mi ha permesso di elaborarli con più libertà senza alterarne l’identità. Non è sempre possibile avere questo tipo di visione: “Credo che io e te abbiamo punti di vista simili, è il motivo per cui abbiamo legato così velocemente. come specie di anime gemelle creative. Il tuo approccio intelligente ai progetti è per me fonte d’ispirazione. Anche se siamo simili, c’è abbastanza differenza da rendere tutto interessante,” mi ha detto Annette.

Detto questo, La Fortezza stessa è un progetto unico, pieno di idee decorative semplici da replicare anche su scala più piccola. Questo lo rende una storia interessante per qualsiasi pubblico.

Come stylist, veniamo ingaggiate per portare la nostra ispirazione al progetto, ma portando avanti la sua storia.

– Annette Joseph

Una rete solidale con obiettivi comuni

Il secondo elemento che ha solidificato il progetto del servizio fotografico alla Fortezza è stata la squadra che l’ha creato. Per me è diventata un’abitudine tenere traccia di creativз che ammiro e con cui vorrei lavorare, così quando inciampo nel progetto giusto ho già in mente una potenziale lista di persone con cui collaborare, che ne potrebbero trarre vantaggi e con cui sono a mio agio.

Puntare su una rete solidale di professionistз (anche se solo sulla carta) e affrontare i potenziali progetti come opportunità per tutte le persone coinvolte per essere valorizzate è per me una questione di economia di risorse. In più, rende tutto più semplice.

Detto questo, “la verità è che a volte lavorare per clienti è difficile,” come Annette mi ripete spesso. Ma anche quando qualcuno all’interno della squadra allargata di lavoro non è la tua persona preferita, l’approccio giusto è accettare la sfida.

È facile lavorare con chi la pensa come te, ma il vero successo è convincere chi non lo fa della bontà delle tue idee e del tuo punto di vista, o almeno riuscire a raggiungere un compromesso. Ci vuole tatto, comprensione, e tantissima capacità di analisi e buona comunicazione. In fondo chiunque sia stylist sa come comunicare.

– Annette Joseph
foto di Infraordinario

Prenditi il merito e mettilo in pratica

Passare del tempo con Annette e lavorare con lei mi ha insegnato a preoccuparmi meno dei dubbi sul mio valore e concentrare le mie energie sul prendermi il merito delle mie capacità e metterle in pratica. Ci saranno sempre nuove abilità da imparare, capacità da tenere in esercizio, modi per limare il mio stile e il mio approccio. Ma ciò non mina il mio talento, anzi, accettarlo è il punto di partenza per progredire nel lavoro.

Ecco perché ora quando ho un’idea creativa scrivo subito a qualcuno che conosco con cui vorrei svilupparla. Non importa se è una persona molto più di successo di me, o se sembra irraggiungibile. E se è un progetto in solitaria mi attivo subito per crearne la strategia e programmarlo.

Se non va in porto passo all’idea successiva. Non lo considero un fallimento ma una semplice tappa in un più lungo processo di crescita.

Ho scoperto che cresco e amplio la mia mente molto più velocemente attraverso la pratica che attraverso lo studio.

– Barbara Pederzini

Ecco la lezione finale per te che leggi. Quando avrai finito questo post, chiudi il dispositivo su cui l’hai letto e prendi in mano un’idea o un progetto che coltivi da tempo. Pensa con chi vorresti condividerlo e scrivi subito a queste persone. Se non hai nessuno in mente, scegli un primo piccolissimo passo per far partire il progetto e lancialo tu stessǝ, adesso! Sei abbastanza.

Archiviato in:cose di styling Contrassegnato con: creatività, donne che ammiro, servizi fotografici

Un nuovo anno e alcune riflessioni su Interior Design Masters (con le mie soluzioni)

Gennaio 14, 2020 da Barbara

babepi Interior Design Masters

Il 2020 è iniziato da qualche giorno e… cavoli, è stato un anno lunghissimo!

Ho letto questa battuta alcune settimane fa e mi ci sono riconosciuta completamente. Non solo perché ho cominciato a scrivere questo post da un fuso orario diverso dal mio, nel mezzo di un’avventura incredibile e francamente trasformativa, ma perché mai come nel 2020 un anno è partito con così tanti cambiamenti nella mia vita professionale.

Ne scriverò sicuramente nelle prossime settimane, poco alla volta (sì, lo prometto, il diario riprenderà vita), nel frattempo durante le vacanze invernali mi sono riguardata un paio di episodi di Interior Design Masters e ho recuperato gli appunti della prima visione.

Perché ne parlo? Perché alla maniera dei primi reality britannici a tema interni, anche questo mi ha lasciato con tantissime idee e riflessioni.

Un reality show di arredamento e creatività

La prima stagione di Interior Design Masters è arrivata su Netflix International (quindi ovunque salvo che in Regno Unito, dove era ancora visibile sul canale co-produttore BBC) il 18 ottobre 2019, e io me la sono vista interamente in due giorni.

Due giorni godibilissimi, devo dire, per due motivi. Il primo è molto personale, ma il secondo credo abbia una valenza un po’ più universale.

Michelle Ogundhein a giudicare i partecipanti

Credo che la scelta di chiamare Michelle Ogundhein a fare da giudice sia stata determinante per la qualità del programma. Forse sono di parte, visto che seguo e ammiro Ms Ogundehin da oltre dieci anni, da quando è diventata direttore di Elle Decoration UK. Ora non lo è più, ma i suoi editoriali mensili erano un mix ispirato di emozione e istinto per il buon design, e li ho conservati quasi tutti.

A dirla tutta ho anche già pre-ordinato il suo primo libro che promette di essere un distillato di quegli editoriali.

Lo stesso equilibrio tra sensibilità sincera e acume per ciò che funziona commercialmente nel mondo dell’arredo che c’era dentro, è secondo me alla base dei momenti migliori di Interior Design Masters. Ms Ogundehin riesce infatti a impartire ai partecipanti alcune lezioni molto dirette e determinanti, pur mostrando empatia e apprezzamento per la loro passione, i loro sforzi e il loro percorso di crescita.

Guardare il programma diventa così un’opportunità di crescita per chiunque lavori in un settore commerciale e abbia un approccio creativo.

Lezioni di business per creativi

Il secondo motivo per cui Interior Design Masters è un programma interessante infatti, è che la maggior parte dei consigli e delle lezioni impartite ai partecipanti al programma funzionano per qualsiasi professionista creativo che lavori per una committenza.

‘Ascolta il cliente’, ‘ricorda che il progetto deve funzionare per chi lo vive’, ‘la risposta migliore al brief non è necessariamente uno stile che porta l’impronta riconoscibile del designer’, sono solo alcuni degli elementi con cui dobbiamo venire a patti tutti, prima o poi.

E che tantissimi professionisti creativi (designer, architetti, arredatori, stylist) tendono a rifiutare, finendo a volte per realizzare progetti che semplicemente non soddisfano le condizioni del brief. O che non sopravvivono oltre le pagine dei giornali o del primo servizio fotografico.

In Interior Design Masters non si fanno sconti a questi errori, che finiscono per costare la vittoria ad alcuni designer creativamente in gamba. E io questa cosa l’ho adorata.


Quello che invece mi ha lasciato perplessa è come i team abbiano affrontato alcuni problemi creativi…

Problemi creativi e soluzioni meno noiose

Ci sta, che per generare conflitto e interesse nella storia si inseriscano passi falsi ed errori grossolani nella scrittura di un programma. Ma che fastidio quando un programma è fatto bene eppure certi dilemmi creativi vengono risolti in modo noioso e poco efficiente! Il lato positivo è che se ne può scrivere in un post, facendone un esercizio alla ricerca soluzioni più furbe!

Qui di seguito elenco tutti i dilemmi di questo tipo, proponendo l’approccio con cui li avrei affrontati e la soluzione che avrei preferito. Sia chiaro, non pretendo che la mia sia quella ideale, ma trovo che la semplice riflessione possa essere utile a chiunque stia per affrontare un progetto di interni.

Episodio uno – le case da esposizione

Problema: creare interni allestiti con cura e che suscitino nel visitatore il desiderio di possederli e di viverci, senza farlo sentire in soggezione.

Come lo affronterei: nei progetti di questo tipo l’ego deve rimanere alla porta. Non stiamo disegnando una casa per un proprietario che vuole vantarsene con gli amici, stiamo progettando uno spazio che faccia venire voglia a quante più persone possibili di dire: “lo voglio!”. Quindi, fatalmente, questo tipo di design non può che essere un po’ scontato e molto commerciale.

La mia soluzione: eppure, anche rispondendo agli obiettivi commerciali di questo tipo di progetti, è possibile essere creativi. Basta applicare l’ingegno in modo diverso. Invece che inventarsi stanze da museo, ha senso costruire una palette solida e declinabile in modo sottile ma riconoscibile attraverso tutte le stanze. È utile identificare pezzi forti e ben riconoscibili e poi costruirci intorno allestimenti che li esaltino, ma che possano essere intercambiabili. Per esempio: una composizione di divano a due posti e due poltrone da conversazione è un punto focale importante e facilmente replicabile. Scegliendo cuscini foderati di lino, un plaid tricot bianco, punti luce in carta e bambù, un tappeto a stuoia e un tavolino di legno sbiancato se ne può fare un interno naturale e femminile. Ma una combinazione di cuscini/plaid/punti luce/tappeto/tavolino in materiali e colori diversi permetterebbe a chiunque di fare propria quella stanza.

Episodio tre – il negozio di skateboard

Problema: come fare a esporre il maggior numero di prodotti (come richiesto dal proprietario del negozio) senza ottenere un’esposizione disordinata e affollata?

Come lo affronterei: quando un cliente pretende una soluzione palesemente poco pratica e contraria al buon senso la mia prima reazione è sempre cercare di capire il motivo della richiesta. Quali priorità cela, che magari il cliente dà per scontate o non ritiene informazioni importanti? Che ragionamento ha fatto il cliente per giungere alla conclusione che quello che gli serve sia proprio questo? Nel caso specifico il negozio di skateboard era famoso per l’ampiezza del proprio assortimento, e il proprietario era convinto che per soddisfare questa aspettativa tutto l’assortimento dovesse essere a vista.

La mia soluzione: in realtà, per mostrare a clienti e potenziali clienti l’ampiezza del proprio assortimento è possibile e spesso consigliabile ricorrere a un approccio museale. Curare l’allestimento e l’organizzazione lasciando che lo showroom esponga un elemento per ogni prodotto e riponendo lo stock (taglie e varianti colore) in magazzino o in contenitori chiusi. Per esempio, le rotelle di ricambio per le tavole in vendita nel negozio mostrato nel programma potrebbero essere organizzate in cassettiere simili a quelle usate nelle mercerie. Il tipo di rotella riposto in ciascun cassetto potrebbe essere usato per creare la maniglia del cassetto. In questo modo il cliente a colpo d’occhio vedrebbe tutte le rotelle, ma l’esposizione sarebbe creativa e organizzata.

Episodio quattro – i dormitori

Problema: come far funzionare dei contenitori versatili in uno spazio ristretto?

Come lo affronterei: la risposta è sempre nella committenza, secondo me. In questo caso poi la committenza è davvero particolare, perché si parla di studenti che probabilmente vivono fuori casa per la prima volta, che forse non hanno neanche idea di cosa gli serva/piaccia. Le domande “Cosa può essergli utile?” e “Come vivono?” sono cruciali e devono procedere di pari passo.

La mia soluzione: l’idea dei letti su cassoni alti è molto furba… ma solo se i cassoni sono poi super accessoriati con cassetti profondi, ripiani nascosti da ante, carrelli su rotelle che scorrono con facilità con maniglie comode e multifunzione.

Tutti gli episodi

Problema: come dipingere rapidamente complementi e arredi senza fare compromessi sulla resa del lavoro?

Come lo affronterei: valutando e gestendo con cura le priorità.

La mia soluzione: la cosa che mi ha fatto andare ai matti guardando l’intera serie è stato vedere la quantità di pittura fatta a pennello quando la pittura spray sarebbe stata una soluzione molto più rapida ed efficace. Usare un pennello (e il pennello giusto) è la soluzione ideale per in tutti i casi in cui le superfici siano di ampiezza limitata e/o ci siano molti dettagli da dipingere. Ma bisogna avere anche il giusto tempo per lasciare riposare e asciugare il lavoro. Se invece bisogna dipingere in una tinta unica diversi complementi il colore spray è la risposta giusta. Pensaci, Frank, con la pittura spray avresti potuto avere il lampadario che volevi nel soggiorno country, invece di dover piegarti al paralume in rattan di Cassie!


E questo è quanto, per questo primo articolo del 2020.

Cosa significa per il blog nel resto dell’anno? Be’, diciamo che spero di riuscire a pubblicare un nuovo articolo più o meno ogni due settimane. Cercherò di scrivere di diversi argomenti, con un buon equilibrio tra storie utili e storie un po’ più personali intorno a riflessioni di diversa natura. Come questa, che tuttavia spero possa essere utile a qualcuno là fuori.

Cosa non dovete aspettarvi di trovare nel blog:

  1. retorica;
  2. un discorso intimo in stile ‘caro lettore’. Non ho idea di chi siate là fuori e mi sa che sarebbe ipocrita far finta di conoscervi un* per un*, quindi mi rivolgerò a voi al plurale.

La verità è che spero mi sorprendiate, se mai ci incontreremo IRL.

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45 giorni per prepararmi al nuovo anno

Novembre 15, 2019 da Barbara

babepi #45daysyearend challenge

Quanto ci vuole a prepararsi a un nuovo anno per essere pronti a cogliere tutte le opportunità che ha da offrire? 5 minuti affogati in un flûte di plastica? Un paio d’ore per trasferire le date importanti da un’agenda all’altra? Una mezza giornata per mettere giù una bozza di pianificazione? Due giorni di mastermind intensivo? Una settimana di workshop? Per me vale tutto, ma quest’anno per diverse ragioni ho deciso di dedicare 45 giorni a mettere le basi del 2020. Questo post è per chi si vuole unire a me.

Da dove sono partita

Tutto è cominciato quando mi sono resa conto che a gennaio vado ad Atlanta (a fare questa cosa qui) e che dovrei arrivarci con alcune cose messe in ordine sul sito, nel mio branding e nel mio business model.

Ma da qui a gennaio lavorerò tutti i fine-settimana (con una eccezione), più tutti i giorni ai progetti lanciati in agenzia e ai piani di comunicazione 2020 per i clienti.

Un minuto dopo essermi accorta della situazione:

via GIPHY

Come spesso mi accade, è stato proprio in questo momento che mi sono detta: “perché non aiutarmi a portare a termine l’eroica impresa con una challenge di ispirazione?!” Cioè, in buona sostanza, aggiungendo un ulteriore impegno alla lista degli esistenti?

E così, per un misto di pazzia, puntiglio e intuizione, è nata l’idea di usare gli ultimi 45 giorni dell’anno per sistemare tutto quello che devo sistemare, ma facendo una sola, piccolissima cosa ogni giorno. E fotografandola su Instagram. Che ha il duplice beneficio di costringermi a farla dovendo mostrarne le cose, e animare il mio profilo dall’andamento vagamente discontinuo.

Come funzionerà

Dal 17 novembre, per 45 giorni, intraprenderò la mia pubblica impresa di azioni quotidiane per prepararmi a un anno che si annuncia assai strano e forse determinante.

Oggi su Instagram apparirà la grafica che riassume i 45 giorni, che chi vuole potrà usare anche come promemoria di dove seguire me e chiunque abbia deciso di aderire. Nel caso voi facciate parte di quelli che hanno voglia/bisogno di farsi spronare dal gruppo.

Le attività in elenco sono di sette tipi:

  • cose per stare bene di testa/cuore
  • cose da affrontare a piccoli passi
  • cose per semplificarsi la vita
  • cose per (ri)cominciare a creare
  • cose per stare bene di corpo
  • cose per badare ai soldi
  • cose per organizzare il lavoro

Sono le aree in cui ho bisogno di tenermi sveglia io, ma mi sono sforzata di renderle adatte a tutti.

Chiunque può partecipare

Infatti non bisogna avere un’attività, grandi progetti per il futuro o sogni nel cassetto per partecipare. Non serve neanche avere buoni propositi per l’anno nuovo, o essere il tipo di persona che li formula, per dire.

Per dirla tutta si può essere di qualsiasi genere/sesso/età/ecc. e in qualsiasi fase della propria vita, perché questa sfida non ha né un punto di partenza né un punto di arrivo prestabiliti.

La preparazione al nuovo anno secondo me ha senso se:

  1. scuote il nostro metabolismo di realtà, quindi il modo in cui digeriamo ciò che vediamo, viviamo, sentiamo
  2. ci allena ad affrontare l’esistenza con un senso di scopo

Insomma, non si tratta di controllare il futuro attraverso una pianificazione certosina, ma svegliarsi dal torpore del tran tran e recuperare consapevolezza dei propri desideri e della propria influenza.

Se ne sentite il bisogno, unitevi a me.

La challenge è terminata, ma se pensi di avere bisogno di un periodo di reset ora puoi scaricare gratuitamente la serie di suggerimenti e completare i quarantacinque giorni ogni volta che ne senti l’esigenza. Clicca qui per scaricare il quaderno.

C’è un hashtag da usare

Non per vezzo, ma per aiutare chi ne ha bisogno a sentirsi parte di un gruppo che insieme compie un’impresa.

Sono un tipo solitario (faccio da sola anche yoga) ma capisco che altre personalità possano sentire la necessità del “conforto del branco” o di un sistema di accountability. Per voi che siete così l’hashtag sarà un modo per sentirvi vincolat* da un impegno condiviso.

Per me sarà un modo per trovare ispirazione, quando ne sentirò il bisogno e scoprire come punti di vista diversi interpretino attività che di norma svolgo quasi in automatico.

L’hashtag è #45daysyearend. Non è facilissimo né originale, ma era libero e quindi me lo sono preso.

Le istruzioni arrivano per email

Se volete approfondire quello che sta dietro ogni azione giornaliera, niente paura. Ogni domenica a chi lo desidera manderò un messaggio email con un elenco delle attività per i sette giorni successivi e due righe di spiegazione per ciascuna. Dal secondo messaggio ci sarà anche un piccolo riassunto di come sono andati i sette giorni precedenti per me.

Saranno email molto brevi e pratiche, senza offerte di prodotti/servizi o altro, né bisogno di interagire. Saranno stampabili così potrete portarvi dietro gli appunti.

Potrete disiscrivervi dalle email in ogni momento o quando la sfida è finita, o continuare a ricevere mie notizie in futuro, se e quando deciderò di fare altre attività simili. Nell’ultima mail troverete tutte le informazioni per scegliere consapevolmente.

Vale tutto, anzi #valetutto

Non ci sono regole precise. Si può aderire per un giorno, cinque, tutti, nessuno e stare a guardare quel che succede.

L’unica vera regola è: non fatevi prendere da sensi di colpa e/o sensi di inadeguatezza se cominciate e poi abbandonate. Quel lunghissimo elenco là sopra è uno strumento: se serve lo usate, altrimenti scartatelo senza scrupoli.

Ultime cose

Già la sento arrivare la domanda: perché la grafica è in inglese? E anche l’hashtag?

La risposta è semplice: l’inglese è la lingua in cui mi organizzo, in cui faccio progetti, in cui spesso sogno, in cui scrivo più facilmente le idee creative che mi vengono. Ogni giorno su Instagram ci sarà anche la traduzione italiana dell’attività del giorno e ovviamente le email sono tutte in italiano. Ma grafica e hashtag restano in inglese.

Direi che è tutto. Se ci sono altre cose poco chiare, scrivetemi nei commenti o DM su Instagram, cercherò di rispondervi rapidamente.

Ci vediamo domenica!

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30 giorni per occuparmi di babepi mentre lavoro in agenzia

Agosto 30, 2019 da Barbara

babepi 30 day challenge

Il primo post del 2019 doveva essere questo, ma diverso. Mi ero ripromessa di raccontare come ho imparato (soprattutto dalla lettura di Leo Babauta) a scomporre grandi idee e obiettivi ambiziosi in piccoli tasselli praticabili e realistici. In particolare, come spesso 30 giorni di micro-attività quotidiane ci permettono di raggiungere traguardi che in partenza sembravano inarrivabili.

Poi all’inizio dell’anno all’elenco dei miei clienti si è aggiunta un’agenzia, che prima mi ha affidato un incarico su un cliente, e poi mi ha chiesto di unirmi alla squadra per un anno. Ho esaminato la proposta per tre lunghi giorni. Se da un lato i vantaggi di ricominciare a lavorare in un team complesso e stabile per me erano evidenti e preziosi (avere una struttura con competenze chiare mi permette di concentrarmi su quello che so fare meglio, un’agenzia mi offre l’opportunità di lavorare su progetti più elaborati, con prospettive diverse, ecc), dall’altro la mia grande preoccupazione era conservare spazio e tempo per babepi e per i miei progetti personali di lavoro.

La doppia vita del freelancer in agenzia

La condizione della libera professionista che collabora per la maggior parte del tempo lavorativo con un’unica entità ma continua ad avere una propria attività è molto frequente, e del perché possa essere una strada interessante e stimolante ha scritto anche Chiara Battaglioni su C+B.

Perché diciamolo, se volessimo chiudere partita IVA e farci assumere lo faremmo, in fondo tra i vantaggi di avere una certa anzianità c’è il fatto di essere nella posizione di negoziare. Ma a volte può valere la pena sfruttare questo potere di negoziazione per tenere viva un’attività che ci regala gioia e nella quale ancora vediamo prospettiva. Che è quello che ho fatto io, seguendo anche i consigli di Giuliana Laurita ascoltati l’anno scorso. Ho negoziato l’ingresso in agenzia con tempi che mi permettessero di portare a termine i lavori aperti, ma anche tenendomi giorni e flessibilità per progetti miei per tutta la durata del contratto.

Avere fatto con cura una pianificazione dei miei obiettivi personali e professionali per l’anno mi ha aiutato a identificare in anticipo quali potevano essere i margini di flessibilità di cui avevo bisogno, e un retreat che avevo già in programma per i primi giorni di aprile mi ha permesso di adattare l’organizzazione professionale che mi ero data per il 2019 alle nuove condizioni.

Tempo per fare e tempo per organizzare

Quello che, nella mia ingenuità, ho lasciato sfuggire all’applicazione quotidiana dei piani che avevo fatto, è stato il tempo che un’attività autonoma comporta per mantenere viva l’organizzazione e la pianificazione, insomma il lavoro on the business, invece che in the business.

Il lavoro in agenzia mi impegna dalle 130 alle 160 ore produttive al mese, il che significa che satura e spesso supera la settimana da 30 ore lavorative che avevo scelto come modello di lavoro quando ho ripreso le attività di babepi a pieno ritmo. A questo tempo effettivo si aggiunge ovviamente quello per i miei progetti personali, per prepararli e coltivarli. In questa matematica neanche tanto complessa, trovare il tempo per curare il dietro le quinte della mia libera professione, scrivere questo blog, finire di tradurre il sito… (e la lista potrebbe continuare) sembra impossibile.

Insomma, è il banco di prova ideale per una sfida da 30 giorni come quelle che ho imparato da Leo Babauta! Il che è perfetto e terribilmente meta, perché mi ha permesso di recuperare la bozza di questo pezzo come primo post della nuova stagione, e allo stesso tempo perché mi ha ricordato un semplice strumento per risolvere quello che per me era diventato un problema.

Un obiettivo concreto

Come si fa a mettere le basi di una grande impresa in soli 30 giorni? Si comincia con un obiettivo ambizioso sì, ma misurabile (in inglese S.M.A.R.T.: Specific, Measurable, Assignable, Realistic, Time-related). Il mio l’ho riassunto così:

ritagliare ogni giorno almeno 30 minuti alle mie attività di lavoro personali, per poter arrivare a inviare la mia prima newsletter mensile il 1 ottobre

Ho scelto questo obiettivo perché mi offre una deadline che è di per sé un premio. Alla fine prevedo di inviare una newsletter molto dinamica, corta e poco commerciale, giusto per attivare un dialogo con un potenziale pubblico che neanche so se esiste. Quindi in buona sostanza se ci riuscirò ne trarrò immediatamente benefici (tipo: scoprire se c’è un potenziale pubblico!).

Piccoli passi per grandi risultati

Ma un conto è formalizzare un obiettivo e un conto è capire cosa bisogna fare ogni giorno per arrivarci senza perdersi d’animo e soprattutto senza perdere di vista la fine. Il primo passo è ovviamente identificare tutte le tappe intermedie che ci possono portare dal punto zero al risultato. La fase successiva è identificare ulteriori tappe intermedie fino ad avere scadenze sufficientemente vicine da non farci perdere motivazione.

In mezzo a questa tabella di marcia di deadline intermedie ci deve poi essere spazio per il cambiamento di approccio necessario per raggiungere l’obiettivo. Perché se per raggiungere un obiettivo, tipo dimagrire 5 kg, per dire, fosse sufficiente puntare a perdere mezzo chilo a settimana… entrerei in una 44! Invece, dietro a ogni grande obiettivo che fino a quel momento non abbiamo raggiunto, c’è di norma un cambiamento di passo richiesto. Nel mio caso, come scrivevo prima, fare uno sforzo concreto per ritagliare spazio per le attività di babepi con una certa regolarità.

Del dettaglio di come funzioni mettere in atto un cambiamento attraverso il meccanismo delle abitudini ho già scritto per C+B. In pratica si tratta di “addomesticare il tuo corpo a compiere un’azione senza quasi pensarci” attraverso la ripetizione regolare di questa azione.

Nel mio caso, ecco un elenco delle attività settimanali che proverò a ripetere nel prossimo mese.:

  • sveglia tassativa alle 6 tutti i giorni feriali, alle 5 il martedì per fare spazio a 1 ora e mezza di scrittura sul blog. Conto di tornare a pubblicare un post ogni due settimane e siccome ho già l’elenco dei post fino a giugno, non dovrebbe essere difficile scriverli in 3 ore;
  • il lunedì mattina prima di uscire di casa dedico 30 minuti alla lettura di libri di aggiornamento;
  • il mercoledì mattina invece dedico lo stesso tempo a aggiornamenti al sito. Ho fatto un elenco su Trello per spuntare le attività;
  • tutti i giorni chiudo la giornata lavorativa con il controllo della mia email babepi e l’aggiornamento della pianificazione per la giornata per correre ai ripari se ci sono cambiamenti, e difendere le ore dedicate a babepi, recuperandole;
  • cerco di pubblicare un post su Instagram ogni giorno feriale, ma mi sono concessa che sia la prima cosa che salta perché ho promesso a me stessa anni fa che non avrei più pubblicato contenuti social solo per esigenze di piano editoriale o strategia. È la mia piccola ribellione;
  • tutti i giorni vado al lavoro in bici e lungo il percorso ascolto podcast rigorosamente ludici. Tipo scripted series (la versione podcast dei vecchi sceneggiati radio) o cose di lifestyle (cosmetici, costume, moda). Così libero la mente da pensieri professionali e sopporto meglio il carico di ore;
  • faccio la pausa pranzo fuori ufficio almeno tre giorni a settimana, almeno una volte alla settimana vado in biblioteca, dove c’è un bel chiostro dove mangiare e poi posso entrare a leggere. È un ottimo modo per resettare la testa a metà giornata e tenere alta la produttività nel pomeriggio;
  • dedico il sabato mattina alla parte admin, con due ore bloccate in agenda, cascasse una pannocchia.

Sembrano millemila cose, ma molte sono semplice applicazione consapevole di azioni che avevo già cominciato a intraprendere. Ho già cominciato questa settimana, con una specie di “riscaldamento”, anche per testare la fattibilità della mia idea. Diciamo che considerato che si trattava della settimana del rientro è andata abbastanza bene, mi sa che nelle Storie di Instagram vi aggiornerò di come andrà in futuro.

E questo è quanto. Sono tornata.

Immagine di copertina di Jordan Whitfield/Unsplash.

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Il momento migliore per fare planning

Dicembre 21, 2018 da Barbara

diario di babepi | fare planning

“Ma tu che organizzi sempre tutto, quando pensi sia meglio fare il planning professionale?” È una domanda che mi sono sentita fare spesso. In qualche occasione ho dato anche rapide risposte, di quelle semplici e poco complicate che ci piacciono tanto, ma che non sono mai la risposta veramente giusta. Perché la realtà è raramente semplice e spesso parecchio incasinata. Siccome dicembre è per me effettivamente un mese di planning ho deciso di scrivere un post per dare quella risposta che non ho mai tempo di dare e la gente di sentirsi dire.

La verità è che il momento migliore per fare planning non esiste. Potrebbe essere uno qualsiasi e sicuramente varia a seconda della persona, di quello che fa, e del momento della vita in cui si strova.

Per essere maggiormente utile e chiara ho deciso di delineare alcuni scenari.

Pianificazione da calendario italiano di una persona con figli

Quando si hanno bambini in età scolare (cioè fino ai 18 anni circa, di fatto) ci sono di solito tre momenti in cui è conveniente fare bilanci e in cui si ha più possibilità di trovare il tempo e la tranquillità necessari per fare programmi a lungo termine, e questi tre momenti coincidono con le ferie scolastiche: Pasqua, vacanze estive, vacanze Natalizie.

Coincidentalmente trovo che siano tre momenti che si prestino discretamente bene anche al calendario fiscale italiano:

  • a dicembre si chiude la contabilità dell’anno ed è possibile fare bilanci e decidere correzioni e cambi di rotta per l’anno successivo. È il momento ideale per fissare obiettivi di vendita e pietre miliari dell’anno successivo. Il planning di dicembre è di solito ricco di riflessioni, che sono spesso più accurate del solito perché beneficiano di 12 mesi pieni di dati che si prestano a rappresentare un anno tipo di attività. È il momento giusto per sognare in grande in termini di pianificazione e di obiettivi a lungo termine. Anche perché di solito tutto si ferma intorno a noi (professionalmente parlando) e abbiamo modo di passare tempo con chi amiamo e chi ci ama veramente, un ottimo promemoria delle priorità sostanziali;
  • a marzo/aprile viene naturale mettere mano ai macro-obiettivi ambiziosi dell’anno e rimetterli in ordine sulla base dei feedback ottenuti nel primo trimestre. Io per esempio considero aprile un mese di pausa dalle attività giornaliere/settimanali legate ai miei macro-obiettivi, sospendo le mie sequenze di abitudini per dare spazio a verifiche e un po’ di sano “go with the flow” che mi permette spesso di capire quanto le abitudini si siano radicate, siano ancora una lotta o semplicemente non siano davvero adatte a me;
  • ad agosto, di nuovo complice la sospensione lavorativa, funziona benissimo fare un pre-bilancio dell’anno per intervenire correttivamente sugli obiettivi di vendita. Non solo, agosto per me è anche l’occasione per una specie di pre-planning dell’anno successivo, con gli ultimi 3-4 mesi dell’anno dedicati a testare le potenzialità di eventuali cambi di rotta o a lanciare attività specifiche sulla base di quanto mi sono goduta i primi due terzi dell’anno.

Va da sé che se si opera nel commercio, per esempio, o nell’insegnamento, questa calendarizzazione non regge altrettanto bene e va senz’altro adattata ai ritmi diversi. Ma lì si torna a monte: come tutte le cose importanti, il momento per fare planning dipende.

La pianificazione situazionale

Al di là dei mesi di calendario, i momenti migliori per fare planning secondo me sono anche quelli in cui ne sorge l’esigenza per contingenza.

  • quando succede qualcosa di drammatico nella tua vita, in positivo o in negativo, è demenziale pensare di poter proseguire come se nulla fosse con i piani progettati in condizioni drasticamente diverse. Più ancora che demenziale è pericoloso e rischia di farti trovare impreparata alle conseguenze di ciò che è successo. Per questo quando si verifica un evento che stravolge i propri ritmi bisognerebbe fermarsi sempre e rivalutare qualsiasi piano si è fatto, partendo da quelli a breve-medio termine. Il distacco forzato che questa pianificazione richiede è anche un ottimo modo per affrontare il tutto senza farsi prendere eccessivamente da emotività e sconforto;
  • quando il nostro corpo ci lancia segnali di allerta, fisici o psicologici, vale sempre la pena ascoltarsi e fermarsi a rivalutare una pianificazione che magari è stata fatta sulla base di condizioni ideali, ma che così com’è non è effettivamente sostenibile;
  • quando si inizia un nuovo ciclo è utile inaugurare una nuova pianificazione per poter affrontare questo ciclo con obiettivi adeguati;
  • ogni volta che si ha tempo per un reset anche minimo è utile rimettere mano a qualsiasi planning che si è impostato per verificare se e come funziona.

I malintesi della pianificazione

Quale che sia il momento in cui si decide di mettere mano al planning ci sono alcuni malintesi diffusi a cui si dovrebbe cercare di sfuggire:

  1. “le pianificazioni impostate vanno seguite alla lettera” – FALSO! Al contrario un buon planning, a qualsiasi livello, è più uno schema di riferimento, una mappa che permette di mettere in ordine di priorità le attività che dobbiamo o vogliamo compiere. È anche un ottimo metodo per automatizzare tutte le attività indispensabili e ripetitive (amministrative o tecniche) che tendiamo a dare per scontate, e che quindi è facile trascurare o dimenticare di fronte agli imprevisti;
  2. “pianifico tutto per evitare imprevisti” – FALSISSIMO! Gli imprevisti non sono (salvo rari casi) evitabili proprio perché non sono prevedibili. Gli imprevisti sono per definizione ineludibili, avvengono, che lo si voglia o no. Una pianificazione fatta bene ha l’obiettivo di farti trovare pronta quando gli imprevisti arrivano, perché ti ha permesso di svolgere le attività fondamentali e tenere in ordine la tua attività, liberandoti tempo per affrontare gli imprevisti senza paura di perdere di vista il resto;
  3. “il planning è uno strumento di lavoro, nella vita non ne ho bisogno” – Perché? Il tuo lavoro di cosa fa parte? Della vita di qualcun altro?! Pensare che solo le attività strettamente professionali abbiano bisogno di essere organizzate è come minimo ingenuo. Nessuno ti obbliga ad avere un piano quinquennale per tutta la famiglia che descriva come e dove vivrete tra x anni, ma nel momento stesso in cui imposti una pianificazione di attività ed eventi professionali dovresti tenere sotto mano anche una pianificazione personale. Per chi ha esseri umani con cui convivere o che dipendono da sé questo concetto è di solito ovvio. Ma anche se si vive soli, non si ha una relazione stabile né progetti di “mettere su famiglia” (come orrendamente dicono le nonne), i piani che si mettono nero su bianco per il lavoro incidono sulla propria esistenza. Se non ti sei chiesta in anticipo quanto tempo libero vuoi nell’anno, cosa è importante per te, cosa vuoi fare della tua vita personale, come pensi di poter imbastire un piano lavorativo che si fonda sulle energie che ci puoi investire e sulla tua capacità di concentrarti?

Io faccio così

Lead by example (letteralmente “guida con il tuo esempio”) è una di quelle cose che non mi riesce per nulla facile fare. Da eccellente teorica e ricercatrice, sono più del genere “fai come dico non come faccio”, eppure la pianificazione è ancora un’attività che non solo pratico attivamente, ma che mi aiuta anche tantissimo. Negli anni ho oliato i meccanismi, ancora faccio ricerche su nuovi strumenti/sistemi almeno una volta all’anno, ma nel complesso ho creato un sistema che per me funziona perché non solo è praticabile, ma produce piani che trovo semplice seguire.

Io, dunque, faccio così:

  1. parto dai miei obiettivi complessivi, quelli che investono ogni sfera della mia esistenza, dalla salute agli affetti, dal tempo libero al lavoro. Affrontare così la pianificazione mi permette di mettere tutto in prospettiva e assicurarmi che io non prenda decisioni dettate dalla bolla o dal contesto, ma fondate su priorità profonde e personali;
  2. il lavoro preparatorio che faccio sugli obiettivi è fondato sul processo ideato da Lara Casey a completamento dei suoi Powersheets. Come ogni anno è da pochi giorni partita la sua serie di post sull’argomento e se non sapete da che parte cominciare vi consiglio di seguirla perché è utile a prescindere dallo strumento fisico che poi usate. In effetti basta avere carta e penna. Io personalmente non lo seguo alla lettera, ho imparato a prendere le parti che preferisco e sicomme la fede religiosa non è un elemento guida del mio processo mi sono ritagliata una versione laica che funziona al meglio per me. Quest’anno l’ho stampata in un fascicolo che vi mostro nei prossimi giorni nelle Storie di Instagram. Non uso più i Powersheets dopo averli comprati per anni e nonostante siano anche graficamente un prodotto spettacolare, semplicemente perché ho preferito integrare molti degli strumenti (in particolare la Tending List) direttamente nell’agenda che mi disegno da due anni;
  3. una volta identificati i macro-obiettivi dell’anno che verrà (di solito sono dai 5 ai 9) li divido in micro-attività, alcune una tantum mensili, altre regolari settimanali, altre ancora giornaliere, che riguardano le abitudini da costruire per concorrere al raggiungimento degli obiettivi o piccoli task non ripetitivi che costruiscono i macro-obiettivi. Fatto il brainstorming delle micro-attività le metto in ordine di priorità e/o di cronologia procedurale in modo che siano pronte ad essere inserite in agenda;
  4. è in questa fase che esamino con più attenzione gli obiettivi che fanno parte della sfera prettamente professionale e li trasformo in un pianificazione strategica, con obiettivi di fatturato, prodotti/servizi da sviluppare, strategie di lancio e di marketing. Di solito per questa parte uso uno strumento di planning professionale americano, tra diversi che negli anni ho testato. Vario spesso, ma in tutta onestà sono tutti abbastanza simili;
  5. di solito alla fine del mese precedente l’inizio dell’anno (e poi sempre alla fine di ogni mese) inserisco in agenda le attività ottenute dal lavoro su tutti gli obiettivi (personali e professionali). È un’occasione in cui compilare anche una pagina di bilancio mensile che ho disegnato per la mia agenda, in modo da verificare se le attività settimanali/mensili/giornaliere da inserire per il mese successivo sono effettivamente quelle che avevo indicativamente previsto. Nell’anno identifico sempre anche tre mesi (aprile, agosto e dicembre) di refresh in cui non inserisco attività programmate se non alcuni momenti di: revisione obiettivi, decluttering e aggiustamenti alla pianificazione professionale;
  6. questo planning complessivo infine si innesta sul mio schema della settimana ideale che visualizzo con una bacheca Trello (che trovate qui, se volete copiare. Ho tolto le cose più specifiche giusto per renderla più utile). Non è mica che io lo segua alla perfezione, eh. Ma ho programmato l’apertura della desktop app Trello al login su questa finestra e la tengo sullo sfondo qualsiasi cosa stia facendo nell’arco della giornata. È un ottimo modo per rimanere *abbastanza* in riga.

Infine, un ultimo consiglio. La pianificazione per ovvi motivi è un processo molto personale, ma se lavorate insieme a qualcuno, che sia un team o un/a partner occasionale, vale la pena prevedere anche una fase di planning comune. Quest’anno per esempio io ho dedicato due giorni di dicembre a una specie di planning retreat con l’amica/collega con cui condivido quasi il 70% del lavoro. Abbiamo compilato insieme ciascuna il proprio planning e stabilito obiettivi strategici comuni che si integrino con le considerazioni personali di ciascuna, in modo che il lavoro che faremo insieme sia organico e compatibile rispetto ai nostri obiettivi personali.

E questo è tutto dal 2018. Ci rivediamo qui l’anno prossimo. Non vi faccio gli auguri, ma fate tanto casino nel frattempo, mi raccomando!

Immagine di copertina di Tirza van Dijk/Unsplash.

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