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Barbara

Fare yoga a modo mio

Dicembre 7, 2018 da Barbara

diario di babepi | yoga

Sono circa tre mesi che non faccio yoga e il mio corpo è in pezzi. Mal di schiena, tensioni muscolari, crampi e mal di testa sono il promemoria costante che non sono mai stata così fisicamente bene (anche in pesantissimo sovrappeso) come l’anno scorso in questo periodo, quando facevo yoga tre volte alla settimana. Così adesso ho un bel post-it rosa shocking che recita “YOGA!” nella bacheca improvvisata sopra al computer, per spronarmi a trovare di nuovo posto per questa attività nella mia agenda.

Conosco e ho sempre conosciuto decine di persone che praticano yoga da anni, ma devo il mio inizio a un’inserzione Instagram di DailyOM. Mi piace dirlo perché c’è tanto fastidio in giro a proposito dei metodi pubblicitari di Facebook/Instagram mentre io devo a loro la scoperta di un modo di amare il mio corpo che nessun indottrinamento di amici e parenti era mai riuscito a farmi provare. Ci trovo una metafora interessante in questa serendipità, perché il mio modo anticonvenzionale di arrivare allo yoga si riflette interamente nella mia pratica di yoga, che è del tutto a modo mio.

Tanto per cominciare faccio yoga rigorosamente da sola

Sono incapace di convivere con altri corpi senza sentire costantemente il peso del confronto. Non si tratta solo del confronto fisico, della comparazione tra curve, linee, altezze, pesi, colori e tono muscolare, ma anche del confronto competitivo. Ho smesso da tempo di fare attività fisica di gruppo proprio perché non riesco a non sentire un richiamo profondo ad essere la più brava e la più performante, concentrandomi ossessivamente sull’esecuzione. Siccome essere la più brava non mi è fisicamente possibile, in gruppo tendo a sfinirmi oltre limiti salubri e a ritrovarmi infinitamente stressata al termine dell’attività fisica.

Per questo non frequento palestre e l’unica attività di gruppo che pratico è il ballo, situazione in cui la musica e l’assenza di regole mi permettono di isolarmi e lasciarmi andare. Viceversa cammino un sacco. Possibilmente in orari in cui la gente lavora e con la giusta playlist nelle orecchie.

Fare yoga da sola, in casa, lontana da specchi e persone, mi permette di calarmi completamente nel mio corpo e ascoltarlo. È una sensazione splendida, perché lontano dalle ansie da prestazione il mio corpo (e non a caso anche io) funziona meravigliosamente e con una fluidità che non mi sarei mai aspettata. Sento i muscoli che si allungano, gli organi che si rilassano nella loro posizione, i nervi che si riconfigurano… e sto, semplicemente, bene.

L’altro motivo per cui faccio yoga da sola è che il modo migliore per coltivare una buona abitudine è rendere facilissimo e poco faticoso praticarla. Il fatto di non dover pagare, prendere appuntamenti, muovermi nel traffico, per fare yoga, garantisce che io lo faccia con maggiore continuità di quanto non farei se dovessi iscrivermi in palestra. Non solo, quando, come in questi periodi, per qualsiasi motivo non riesco a praticarlo, non perdo soldi investiti in abbonamenti o corsi.

Il mio yoga à la carte

Qualche sera fa, a una delle ennemila cene pre-natalizie che caratterizzano dicembre, mi sono ritrovata seduta a fianco di un’insegnante di yoga che ha cercato in ogni modo di convincermi del potere incredibile della pratica yoga in gruppo. Non dubito che ad altri possa fare quell’effetto, e forse il motivo per cui per me il costo psicologico ed emotivo di quell’esperienza è troppo alto è solo che con gli anni ho sviluppato una forma di social anxiety.

Ma uno dei motivi per cui preferisco non confrontarmi con un insegnante e/o un gruppo di praticanti è anche perché non condivido il pur comprensibile zelo dottrinale che circonda lo yoga. Chi lo pratica aderisce spesso a una filosofia precisa e complessa con un abbandono fideistico che solo in parte secondo  me è giustificato dal rigore che dovrebbe accompagnare ogni forma di esercizio fisico.

Invece il mio approccio complessivo allo yoga è decisamente à la carte. Il che significa che prendo della pratica yoga quel che voglio e come voglio:

  • la meditazione non ha mai fatto per me, quindi il mio yoga non prevede né mantra né respirazioni meditative
  • scelgo asana di cui sento il bisogno abbastanza a istinto, tendenzialmente le seguo secondo flussi continui senza riposo tra le diverse posizioni
  • mi concentro molto sulla respirazione (ma non pratico il Pranayama) ma mi limito ad eseguire una respirazione profonda e controllata perché trovo che mi faccia sentire più rilassata e flessibile
  • sudo un sacco. Il che mi fa un po’ strano perché mi ricorda sempre una scena di sesso a tre in una palestra di yoga da alta temperatura che si trova qui. Non metto il link ad Amazon perché la scena è al limite dello stupro.

Non sono qui a incoraggiare chi legge a seguire il mio esempio. Non ritengo sia necessariamente un “modo corretto” di fare yoga. Ma me ne frego, perché funziona per me e mi fa stare bene. Di “fare la cosa giusta” per il principio di aderire a modelli di perfezione ho perso la voglia.

Pochi maestri ma buoni

Una delle obiezioni più insistenti dell’insegnante con cui ho parlato l’altra sera, al mio modo di praticare yoga, è stata “ma non ti fai mai controllare da qualcuno?”. Che potrebbe riassumere bene la domanda che altri mi hanno fatto: “ma come hai imparato? Come fai a sapere se fai la cosa giusta?”.

Partiamo dal presupposto che ho praticato Pilates per anni, quindi ho una discreta abitudine a praticare movimenti lenti facendo grande attenzione alla posizione di ogni parte del mio corpo (Joseph Pilates ha creato la sua disciplina anche sulla base di alcuni elementi dello yoga).

Per il resto, ho cominciato a praticare yoga seguendo le lezioni video del corso di Sadie Nardini per DailyOM 21 Day Beginner Yoga. Di Sadie ho letto pessime cose in giro, e ho scelto di ignorarle per tre motivi:

  1. al termine del corso (che ho spalmato su un mese e mezzo circa) avevo perso una taglia (due nelle gambe) e facevo movimenti che non ricordo di essere stata in grado di fare neanche a 20 anni, quindi per me è stato efficace
  2. le istruzioni di Sadie sono molto precise e costanti per cui è facilissimo seguire i video e praticare allo stesso tempo senza perdere alcun passaggio, inoltre le lezioni si possono praticare con pochissimo spazio e quasi zero attrezzatura (all’inizio io usavo una coperta e due cuscini)
  3. lo stile di incoraggiamento, costante, positivo e completamente flessibile (suggerisce continuamente versioni semplificate e incoraggia a non strafare) di Sadie mi ha portato senza sforzo a forzare i miei limiti, proprio perché mi sentivo libera di non farlo.

Io ho trovato ciò che funziona per me, ma in circolazione ci sono tantissimi corsi e app con video e il livello è in generale molto alto, quindi le opzioni per chi vuole cominciare senza uscire di casa sono tantissime.

Su Instagram si può seguire anche Lydia Sasse, una mia ex cliente con cui sono rimasta amica a distanza, che insegna yoga in Irlanda ma pubblica spesso utili video. Le sue routine di face yoga e di yoga per potenziare il sistema immunitario sono semplici da seguire e molto efficaci.

L’unica cosa che sì, mi sento di consigliare, è questa: cercate bravi maestri ma diffidate dei guru. Quelli che “questo è il modo giusto di fare yoga”. Esistono almeno 5 interpretazioni dello yoga, e non sono un’esperta quindi anche quel numero è forse molto riduttivo. Nessuna di queste interpretazioni, se praticata con attenzione, mi pare risulti in danni fisici e/o psicologici, quindi mi sembra ragionevole affermare che chi ha scelto una sola interpretazione avrà le sue motivazioni ma sicuramente non è infallibile.

Gli strumenti che uso

In ultimo, col tempo ho imparato che una coperta e qualche cuscino non mi permettevano di praticare con la tranquillità che volevo, così ho investito in alcuni strumenti specifici:

  • un telo yoga antiscivolo, acquistato da Decathlon, perché ho capito che alla fine non mi serviva l’imbottitura di un materassino ma che la superficie non si muovesse sotto di me
  • due blocchi di sughero (sempre di Decathlon), perfetti per diversi usi. Peso giusto, facile maneggevolezza, li adoro
  • uno sgabello poggiatesta FeetUp (grazie ancora, inserzioni di Instagram!), per aiutarmi nelle inversioni. Per il momento l’ho usato solo per alcune asana di apertura delle spalle e lo amo molto. Non vedo l’ora di testarlo anche per il suo uso principale.

Adesso non mi resta davvero che ricominciare a ritagliarmi tempo per stare meglio con lo yoga.

Foto di copertina di Ben Blennerhassett/Unsplash.

Archiviato in:cose nonsense Contrassegnato con: cura di sé, fare yoga

Motivazione senza confronto

Novembre 23, 2018 da Barbara

diario di babepi | motivazione

Questo post è dedicato a tutti. Perché in un momento o l’altro nella vita di chiunque, più spesso tutti i giorni, capita di avere bisogno di trovare stimoli di motivazione non solo dall’interno, ma anche dall’esterno. No man is an island entire of itself et al. Nella mia esperienza il rischio di trasformare questa ricerca di motivazione in una camminata sui carboni ardenti del confronto è breve. Per questo ho messo insieme un piccolo saggio su come fare a trovare in giro gli stimoli giusti per portare a termine qualsiasi cosa senza farsi massacrare dal senso di inadeguatezza.

È per tutti, ma soprattutto per me.

Sono una persona caratterizzata da un’abbondanza di idee e da una scarsità di progetti portati a termine, in proporzione. Ho aggiunto “in proporzione” perché a guardare indietro con onestà devo ammettere di avere effettivamente realizzato molto. È che, rispetto a quanto avrei voluto o immaginato di portare a termine, questo molto risulta ancora poco.

Le cause di questa disparità di peso tra vocazione e realtà sono tante.

Cercando di essere sincera con me stessa le ho elencate qui:

  1. ho una piccola dipendenza da adrenalina, quindi tendo ad apprezzare di più la ‘botta’ ormonale che si accompagna alle illuminazioni improvvise, alle intuizioni, di quanto non apprezzi il prolungato stato di down che si accompagna al duro lavoro di fare a pezzi un’idea nella fase esecutiva del progetto;
  2. soffro di insicurezze varie, dalla sindrome dell’impostore all’ansia da prestazione, da un’impercriticismo più rivolto verso di me che all’esterno alla semplice sensazione di non essere abbastanza brava. Anche per questo per me le fasi esecutive sono una rincorsa di modifiche, aggiustamenti, verifiche e dubbi che fanno perdere slancio anche al progetto più solido;
  3. sono pigra, non ha senso girarci intorno, e tendenzialmente edonista (da qui si torna al punto 1).

Per controbattere la mia tendenza a partorire idee sterili ho adottato questa tecnica:

  • prima di tutto ne regalo a chi credo ne abbia bisogno e gli strumenti per realizzarli. Le regalo per due motivi: prima di tutto non ho il tempo di dedicarmi alla vendita di tutte le idee che mi vengono, poi non ho il tempo di occuparmi di fare da project manager di tutte le idee che mi vengono. Potrei tenermele a futura utilità? Dipende. Alcune magari ha senso, tutte costituirebbero solo clutter mentale e lavorativa;
  • ogni idea che mi viene va su una bacheca Trello che mi fa da incubatore, in cui ho creato uno schema di lista che mi incoraggia a declinare già l’idea in azioni concrete;
  • mi sono messa a studiare il meccanismo di motivazione, per cercare di capire come fare ad alimentarla.

Sul tema della motivazione, in un’epoca in cui tutti hanno almeno un poster o una cartolina motivazionale a portata di mano, ho trovato un bellissimo post dal piglio scientifico che preferisco: Motivation: The Scientific Guide on How to Get and Stay Motivated.

Di questo articolo che vi consiglio di leggere, rubo due concetti:

  1. la definizione di motivazione come non solo l’insieme delle forze mentali che ci spingono ad agire ma anche come quel momento in cui la fatica di fare qualcosa (nel mio caso mettere in pratica un’idea) diventa più facile da affrontare della fatica di non fare niente;
  2. l’idea che la motivazione più forte scaturisca dall’azione diretta piuttosto che dalle riflessioni che facciamo prima di cominciare; ne parlerò di più qui sotto.

Cos’è la motivazione

Lunedì scorso è uscito un mio articolo sul cambiamento su C+B, in cui ho definito la motivazione come il “profondo desiderio [per] una conseguenza positiva e durevole che il cambiamento […] porterà nella tua vita”. Non è stata una definizione improvvisata, ci ho lavorato di fino e di sinonimi per mezz’ora perché emergesse l’importanza di trovare stimoli da dentro invece che da fuori per agire un’evoluzione di sé. Lo stesso discorso però credo che valga anche per la motivazione necessaria per portare a termine un progetto o realizzare un’idea creativa. È infatti un profondo desiderio di vedere il risultato finale che ci sostiene nel duro lavoro.

Non a caso per molti è utile ricorrere alla visualizzazione di questo risultato per gestire i cali di motivazione lungo il percorso. Gli atleti si immaginano mentre solcano il traguardo, i manager visualizzano il momento in cui relazioneranno il fatturato al consiglio d’amministrazione, quando organizzavo matrimoni nella mia testa viaggiava sempre il film della giornata. La visualizzazione è senz’altro un ottimo strumento per sostenere la motivazione e ha spesso il vantaggio aggiunto di farci vedere in anticipo potenziali falle nel progetto o situazioni in cui potrebbero sorgere imprevisti.

Ma per moltissime persone, anche creative, è difficile visualizzare concretamente un risultato senza il supporto di immagini esterne. Ed è qui che l’occhio della motivazione si rivolge all’esterno in cerca di stimoli aggiunti, e si apre il rischio di scivolare nel confronto.

Il confronto è una merda

Perdonate l’interpretazione volgare della citazione di Roosevelt sul confronto come fonte di infelicità. La realtà è che il meccanismo di cercare in altri un elemento di sprone per aiutarci a uscire da un’impasse (questo è, in fin dei conti, la ricerca di stimoli esterni) ci pone da subito in una situazione di inferiorità e insicurezza. È come se il nostro subconscio dicesse: “ciò che sei, ciò che fai, quello che desideri, in questo momento non è abbastanza; guardati intorno, cerca qualcuno che sta riuscendo dove fallisci, guarda come ci riesce e prova a fare lo stesso”.

Il confronto è nella maggior parte dei casi una dichiarazione di rinuncia del valore di sé e uno strumento di conformismo. Fatto online poi, è un momento in cui di fatto rinneghiamo la nostra unicità per cercare sicurezza nel branco, nella speranza che assomigliare alla manifestazione esterna di ciò che percepiamo come successo ci permetta di raggiungere quel successo.

Solo in rarissimi casi è possibile avvicinarsi al confronto da una posizione di parità, forti della sicurezza del proprio valore e genuinamente in cerca semplicemente di un confronto tra pari, del tipo “ti racconto come faccio io e tu mi racconti come fai tu, insieme scopriamo come possiamo anche imparare l’una dall’altra per arricchire il nostro bagaglio di esperienza”. E questi rarissimi casi possono solo avvenire di persona e con persone che si conoscono bene e con le quali c’è rispetto reciproco.

Siccome però, nella quotidianità, è più facile e comodo affidarsi alla ricerca di stimoli online o guardando agli sconosciuti, mi sono costruita una strategia per approfittare delle informazioni disponibili ovunque senza rischiare di scivolare nel confronto.

Cinque avvertenze per affrontare la ricerca di motivazione senza sfociare nel confronto

La chiave principale di questa strategia per me è sempre difendere la propria identità, per questo gran parte delle avvertenze che adotto personalmente tendono a mettere distanza tra me e le mie motivazioni profonde e quelle degli altri.

Rimanere sulla superficie sensoriale

Foto, illustrazioni artistiche, bozzetti, musica e video ci toccano spesso a un livello sensoriale che è allo stesso tempo intimo e irrazionale. Hanno la capacità di scatenare idee e stati d’animo senza generare ragionamenti complessi che potrebbero portarsi dietro la mente analitica (e con lei dubbi, insicurezze, paure). Per questo la prima fase della mia ricerca di motivazione esterna quando sono in fase di stallo su un progetto è cercare stimoli sensoriali spesso da produzioni artistiche.

Guardare alle cose e non alle persone

Se lo stimolo sensoriale non è sufficiente, può essere utile a volte entrare più nel dettaglio e andare a vedere cosa/come fanno altri non tanto a risolvere il problema che ho incontrato ma proprio a sviluppare progetti simili. La mia avvertenza in questo caso è di scorrere link e profili social (ma anche giornali e vetrine) senza cercare di scoprire chi c’è dietro, ma spersonalizzando il prodotto del lavoro, cercando di evitare di scoprire età, stile di vita, passioni personali dell’autore.

È un meccanismo non semplice e alcuni lo ritengono sterile. Che senso ha guardare alla superficie delle azioni se non ne conosci la motivazione? Per me ha senso se sono forte dei meccanismi del mio progetto e se ho la capacità di riconoscere rispondenze tra le azioni che vedo e il mio progetto. Insomma, non “copio” la motivazione, ma stimolo la mia immaginazione a trovare azioni simili a quelle che vedo sulla base delle mie motivazioni intrinseche.

Imparare a riconoscere le emozioni negative, isolarle e netrualizzarle

Ovviamente in pratica è quasi impossibile scindere azioni e persone, soprattutto quando la ricerca avviene online, sui social network. In quel caso cerco di mantenere alta l’allerta sulle emozioni negative. Se osservare i processi di una persona reale online mi blocca invece di spronarmi, mi fa arrabbiare invece che darmi la gioia di procedere, mi provoca frustrazione rispetto alla mia vita… cerco di fare un passo indietro.

Questo spesso significa smettere di guardare del tutto le attività di una persona, ma anche cercare aiuto esterno per trovare rinforzo positivo e dedicarmi un momento di indulgenza e positività (andare a guardare i risultati di un mio progetto concluso ben fatto o leggere un messaggio di complimenti aiutano sempre).

Cercare fuori contesto

Se il momento è particolarmente critico trovo che valga la pena non rischiare neppure di trovarsi di fronte persone che ci provocano emozioni negative, per questo spesso svolgo le mie ricerche di stimoli e motivazione in situazioni fuori dal contesto in cui vivo e lavoro, e persino del progetto stesso che sto sviluppando.

Passare subito all’azione

Infine, nel mio viaggio alla ricerca di motivazione non vado mai sola, ho sempre con me Evernote Clipper e Trello, per salvarmi le idee che scaturiscono dagli stimoli che trovo in giro e trasformarle subito in azioni concrete inserite nella lista Trello del progetto, con scadenza e dettagli di strumenti e risultati. Concordo pienamente con James Clear che lo stimolo più forte per proseguire in un progetto e completarlo venga proprio dai momenti di azione piuttosto che da quelli di riflessione.

E questo è quanto. Spero che questa guida sia utile a quante più persone possibili e porti alla conclusione di tanti entusiasmanti nuovi progetti!

Foto di copertina di Ambitious Creative Co. – Rick Barrett/Unsplash.

Archiviato in:cose di organizzazione Contrassegnato con: confronto, motivazione

Convegni, cosa non deve mancare

Novembre 9, 2018 da Barbara

diario di babepi | convegni

Organizzare eventi in qualche forma è una caratteristica degli esseri umani dalla notte dei tempi. Come dopo queste migliaia di anni di civilizzazione (e poco più di un secolo di accelerazione vertiginosa) ancora sia possibile farlo con approssimazione e totale inconsapevolezza dei bisogni basici dei propri ospiti… è uno di quei misteri che mi attanaglia almeno un paio di volte l’anno. Cioè quando partecipo a convegni seriamente carenti sul lato organizzativo.

In Internet si trovano infiniti articoli su come organizzare eventi aziendali correttamente, cosa non deve mancare, e così via. Ma ho sempre la sensazione che siano la versione Bignami di qualche manuale “Eventi come comunicazione aziendale”. Raramente leggo semplici vademecum sulle minuzie pratiche, così negli ultimi due anni ho preso appunti di tutte le piccole cose facili da risolvere che però avrebbero cambiato la mia esperienza di spettatrice (o relatrice) da francamente mediocre a splendida.

Ho messo in ordine gli argomenti secondo il percorso di accesso dei partecipanti, mescolando l’esperienza del pubblico con quella dei relatori, nel caso non fosse chiaro.

Compenso per i relatori

Parliamoci chiaro, preparare e presentare un intervento a qualsiasi evento è un lavoro. Come tale deve avere una chiara retribuzione, non necessariamente espressa in denaro contante o bonifico, ma anche risultato indiretto dalla presentazione stessa.

Questo significa che quando si manda in giro una request for papers/talks questa dovrebbe chiaramente includere i termini del compenso.

Se sono indiretti dovrebbe essere chiaro come l’intervenuto potrà goderne:

  • acquisendo i dati dei partecipanti; 1200 persone partecipano all’evento, ma se il relatore non ha accesso ai dati di queste persone o anche solo a un’analisi statistica precisa su di loro, la loro mera presenza non è sufficiente a garantire un ritorno d’investimento sull’intervento
  • raggiungendo il pubblico di interesse; la reach delle campagne di social media marketing (intesa come numero crudo), se non è supportata da un media kit che ne determina la composizione e i comportamenti, di per sé non è un indicatore e non offre strumenti al relatore per valutare se la sua presenza al convegno raggiungerà il suo pubblico d’interesse
  • conoscendo persone interessanti e utili al proprio lavoro; un elenco degli ospiti di spicco e degli altri relatori è fondamentale per poter valutare le potenzialità di networking di un evento

Ovviamente, se il modello organizzativo dell’evento prevede che i relatori intervengano in cambio della visibilità offerta dall’evento, questa deve essere un impegno concreto degli organizzatori. Una campagna di marketing e social media marketing seria è fondamentale.

Quale che sia la scelta che fate, nella pianificazione economica dell’evento dovreste provare a prevedere la copertura delle spese di viaggio e alloggio (se necessario) per i relatori.

Parcheggio e mezzi pubblici

Raggiungere l’evento è la conditio sine qua non per partecipare, quindi sarebbe bene che la quantità e accessibilità dei parcheggi e i collegamenti coi mezzi pubblici fossero uno dei primi aspetti da esaminare quando si sceglie una location. Per chi lavora negli eventi e in particolare in location scouting queste sono tra l’altro informazioni da includere sempre nelle schede descrittive delle location.

Indicazioni chiare dovrebbero essere incluse da subito nel sito (o pagina) Internet dell’evento. Le fondamentali sono:

  • elenco dei mezzi pubblici disponibili per raggiungere la location, prezzo e informazioni per procurarsi i biglietti
  • itinerario stradale dalle più vicine uscite autostradali (non servono quelle dalla stazione, da cui presumibilmente si prende un taxi)
  • quantità di posti auto disponibili in loco. Se questa è inferiore alla capienza della location bisogna segnalarlo chiaramente
  • posizione, costi e capienza di ulteriori aree di parcheggio nelle vicinanze
  • indicazioni chiare ed esaustive per l’accessibilità di chi ha difficoltà motorie (parcheggi in prossimità dell’ingresso con passaggi pedonali pavimentati e rampe, ascensori). Questo significa che se l’accessibilità dello spazio non è totale bisogna segnalarlo chiaramente da subito. Sarebbe bellissimo che l’evento fosse accessibile nella sua interità, ovviamente

Se in qualsiasi momento prima dell’evento le condizioni di raggiungibilità e/o parcheggio dovessero subire variazioni è necessario aggiornare rapidamente le informazioni pubblicate online (con sottolineature che attirino l’attenzione) e comunicarlo tramite i principali canali social dell’evento.

Volete poi farci un figurone? Incentivate la mobilità sostenibile proponendo soluzioni di car sharing e car pooling e invitando i visitatori a lasciare a casa l’auto.

Segnaletica

La segnaletica minima disponibile dovrebbe guidare l’itinerario del visitatore dal parcheggio fino a tutte le aree che lo interessano (registrazione, guardaroba, toilette, bar/zone ristoro, sale conferenze).

Se sapete in anticipo che la maggior parte dei visitatori raggiunge la location coi mezzi pubblici vale la pena accordarsi con i servizi affissione del Comune per inserire segnaletica anche in prossimità delle fermate degli autobus/tram/metropolitana.

Se i partecipanti sono numerosi prevedete diversi banchi di registrazione con un/a steward/hostess ciascuno e un cartello chiaro che indica come devono disporsi gli ospiti (per iniziale del cognome, per status, ecc). Se volete farvi amare prevedete anche dei percorsi obbligati per la fila che si andrà a creare, con tempi stimati di percorrenza.

Indicazioni chiare relative a postazioni di ricarica e wi-fi sono un bonus. Ma hanno il valore aggiunto di scaricare il lavoro degli/delle steward/hostess che così non dovranno rispondere alla stessa domanda duecento volte nella prima ora di registrazione.

Welcome pack agli iscritti

Ogni partecipante (che sia relatore o pubblico) dovrebbe ricevere al momento della registrazione un pacchetto che include:

  • programma completo e aggiornato della giornata (quindi evitate grafiche elaborate e puntate su un documento chiaro che possiate stampare anche la mattina stessa, nel caso)
  • una mappa della location con evidenza sulle aree di interesse
  • indicazioni chiare sui pasti. Se sono offerti queste informazioni includono: posizione area ristoro, orari, menù, note chiare per le alternative dietetiche disponibili (almeno per celiaci, allergici, vegetariani). Se i pasti non sono inclusi nella giornata è necessario fornire un elenco dei luoghi dove è possibile procurarseli

Prese in sala

È inutile che ci prendiamo in giro, al giorno d’oggi chiunque viaggia con almeno due dispositivi elettronici e con ogni probabilità ne userà almeno uno per l’intera durata dell’evento. È quindi fondamentale che la location abbia a disposizione diverse prese di corrente sia nelle aree comuni sia in sala. Laddove queste siano carenti attrezzatevi in anticipo con prolunghe e multiprese da fare installare e mettere in sicurezza ai tecnici dell’evento.

WiFi dedicato

Lo stesso discorso delle prese vale per il WiFi che può non essere indispensabile per seguire correttamente l’evento, ma che fornisce un’eccezionale opportunità di comunicazione per chi lo organizza e permette di raggiungere con i contenuti dell’evento una platea molto più ampia. Insomma è diventato una necessità.

Chi partecipa all’evento molto probabilmente ne segue le informazioni via Twitter o vuole condividere ciò che impara/sente con il proprio pubblico. Ma un facile accesso alla rete è utile anche per esplorare approfondimenti, mantenere attiva la propria giornata di lavoro tra un intervento e l’altro, modificare i propri piani di viaggio.

Certo, ormai tutti hanno un piano dati sui propri dispositivi, ma offrire un WiFi dedicato nella location dell’evento vi permette di:

  • sopperire ad eventuali carenze di copertura del segnale (cosa assai comune in molte location per eventi)
  • garantire la connessione completa anche a chi ha piani dati limitati

Offrire l’accesso a una rete WiFi non vuol dire semplicemente fornire un account completo di password al momento della registrazione (per evitare lunghi processi di registrazione agli ospiti) ma assicurarsi che questo sia dimensionato per accogliere il volume di accessi e traffico dei partecipanti.

Puntualità degli interventi

Gli interventi devono essere puntuali. Punto. A maggior ragione se l’evento si articola su più sale e il pubblico può avere interesse a spostarsi da sala a sala secondo un percorso tematico.

Questo significa che almeno una persona per sala deve essere costantemente dotata di telefono per monitorare gli arrivi dei relatori e se necessario spostare l’ordine degli interventi avvertendo prontamente i colleghi delle altre sale e il personale nell’area registrazione. Non devono esserci momenti morti e il pubblico deve poter scegliere se rinunciare a un intervento o spostarsi di sala in conseguenza di un cambio di ordine del giorno.

Coffee break

La pausa caffè, di tutti gli elementi di questo elenco, è forse quello più sacrificabile. Intendiamoci, caffè (ma possibilmente anche opzioni deca e tè) bisogna che ce ne sia disponibile da qualche parte nell’arco della giornata. Ma non è fondamentale che lo offriate voi.

Quello che però è fondamentale è che non sia in vendita a €2 nell’unico bar presente in zona (come si dice in questi casi? #truestory). Soprattutto se il bar è interno alla location, quindi destinazione sicura di tutti quanti i partecipanti all’evento, almeno un paio di volte nella giornata. Fatevi furbi e stringete un accordo con il bar per calmierare il prezzo del caffè per i partecipanti all’evento, magari portandolo a €1. In cambio potete offrire al bar la menzione su tutta la comunicazione dell’evento.

Però, se vogliamo essere onesti, avendo un budget limitato, è sempre meglio scegliere di offrire un coffee break esteso agli ospiti piuttosto che il pranzo. In parte perché il pranzo è qualcosa che è facile portarsi da casa, volendo. Ma anche perché il momento della pausa pranzo è per molti l’occasione per allontanarsi, sgranchirsi le gambe, fare qualche telefonata, quindi difficilmente gli ospiti sentiranno la mancanza di un servizio catering completo… del caffè invece sì. Ne sentirete tutti la mancanza.

Pranzo dedicato ai relatori e alle autorità

Relatori e autorità devono poter mangiare in modo efficiente e tranquillo, in modo da potersi preparare ai loro interventi. Per questo a loro il pranzo deve necessariamente essere offerto, in una zona riservata a loro e con tempi a loro dedicati.

Ciò significa che se avete previsto un servizio catering per tutti dovrete prendere accordi affinché siano dedicati tavoli, buffet e personale a relatori e autorità, in modo che questi non si trovino a fare la fila al buffet o non rischino di rimanere senza posti a sedere. Inoltre vi converrà raccogliere in anticipo le preferenze ed esigenze dietetiche di questi ospiti, in modo da rendere il servizio super efficiente per loro e per voi: se tutto è ben organizzato è sufficiente avere un cameriere ogni 10-5 persone.

Caffè incluso nel pranzo

Spero si sia capita l’importanza del caffè. Ecco, se proprio avete deciso di offrire il pranzo ma non il coffee break, allora tassativamente includete almeno un caffè nel pranzo. Al catering costa pochissimo (e sarà pure caffè da moka in thermos, spesso) e voi avrete fatto felici vostri ospiti!

Guardaroba rinforzato

Si sà, a partire da un certo orario gli ospiti cominceranno ad andarsene e al termine dell’ultimo intervento della giornata il picco sarà massimo. Per questo, da un’ora prima del termine dell’evento tutto il personale di assistenza alle sale dovrebbe essere dirottato sul guardaroba o sui servizi di accompagnamento all’uscita (indirizzare alle fermate dei mezzi, cominciare a chiamare taxi in anticipo se non c’è una fermata nelle vicinanze, ecc.) in modo da rendere le operazioni di chiusura fluide e spedite.

L’ultimissima cosa è proprio un di più, ma di quelli importanti.

Servizi inclusivi

Se state organizzando un evento dedicato alle donne con l’obiettivo di fornire un’occasione di empowerment e di crescita personale dovete pensare all’ipotesi che queste donne siano donne sole ma con bambini al seguito, o anche accompagnate ma impossibilitate a lasciare i figli a casa.

Perché questo è il mondo in cui vivamo. Quindi sì, a volte una donna non ha scelta se non portarsi i figli dietro e se il vostro obiettivo è aiutarla ad avere delle scelte in futuro dovete aiutarla prima di tutto ora che non le ha.

Incidentalmente la donna con figli al seguito è anche quella a cui interessano meno i fronzoli, i gadget, i cotillons, quella di cui vi guadagnerete l’amore incondizionato se le dite:

  • sì, puoi portarti i bambini e c’è una baby sitter che li fa giocare in uno spazio dedicato a loro mentre tu ascolti gli interventi senza essere disturbata
  • sì, puoi allattare, cambiare il pannolino ai pupi e dargli da mangiare, perché abbiamo attrezzato un’area tranquilla e riservata con un fasciatoio, un frigo e un forno micro-onde
  • sì, sei la benvenuta anche col passeggino perché abbiamo attrezzato un lato del guardaroba apposta

Insomma, “sì, mi interessano davvero i tuoi problemi e il tuo destino e lo dimostro dedicando una parte del budget a semplificarti la vita già oggi”.

A volte basta davvero poco, no?

Immagine di copertina di Håkon Sataøen/Unsplash.

Archiviato in:cose di eventi Contrassegnato con: assistenza clienti, organizzare eventi

Io leggo romance

Ottobre 19, 2018 da Barbara

diario di babepi | romanzi rosa

Per una persona italiana, con una laurea in materie umanistiche e un interesse nella scrittura, parlare di questo argomento equivale più o meno a confessare di essere un omicida seriale.

Ma ho smesso di nascondermi e ho deciso di andare orgogliosa del fatto che sì, io leggo romanzi rosa.

Ammetterlo pubblicamente, nero su bianco, non è stato poi così difficile. Credo che questo abbia a che fare con l’allenamento ad ammettere cose considerate umilianti fatto quando lavoravo come organizzatrice di matrimoni. In quel frangente ho scoperto che in Italia essere wedding planner è considerata non solo una professione frivola e poco autorevole, ma anche prerogativa di persone poco intelligenti, almeno a giudicare dalle reazioni delle persone quando comunicavo di svolgere quel lavoro.

Dello snobismo di noi italiani su tanti argomenti che hanno a che fare con la creatività un giorno qualcuno dovrà dire qualcosa.

Non io, che oggi ho solo voglia di raccontare come ho cominciato a leggere romanzi rosa, perché non la ritengo un’attività di cui vergognarsi e anzi come farlo mi abbia aiutato nel lavoro e nella vita personale.

Tutto è cominciato intorno ai tredici anni, se non sbaglio, quando il marchio Harmony (la versione italiana dell’americana Harlequin) ha pubblicato per quasi un anno una collana di romanzi rosa con protagonisti adolescenti. Young Adult ante litteram, se vogliamo, questi romanzi uscivano una volta alla settimana in edicola, si leggevano in circa un paio d’ore e contenevano tutti i topos del genere. Da adolescente imbranata e un po’ asociale li adoravo e ho parecchio sofferto quando l’esperimento editoriale è si è esaurito.

In piena crisi di astinenza, tra i quindici e i sedici anni mi sono ritrovata a scrivere una di queste storie in un quaderno. Ci ho preso gusto ed è diventato un piccolo romanzo che leggevo alle amiche con cui condividevo questa passione. Ad oggi è l’unico lavoro di scrittura creativa che io abbia mai completato.

Vorrei non fosse necessario fare distinguo, ma contemporaneamente alla lettura di questi Harmony dalla copertina rosa confetto leggevo anche qualsiasi altra cosa mi capitasse a tiro. Tantissimi classici, tutto Dumas, gialli di Agatha Christie, Il Signore degli Anelli, un sacco di fantasy, ma anche Elsa Morante, Jane Austen. E potrei continuare.

Per me, allora come oggi, leggere era leggere. Se un libro mi cattura e non mi fa rabbrividire per la pessima scrittura, va più che bene.

Sento la necessità del distinguo in parte per latenti superstiti sensi di colpa, in parte perché la reazione che negli anni ho sentito più spesso, alla mia affermazione che leggo romanzi rosa, è stata “guarda che c’è un sacco di roba scritta molto meglio, se tu provassi a leggere qualcosa di diverso non riusciresti a leggere questa spazzatura”. No. Ho letto tutto Dostoevskij, grazie. Lo amo. Ma amo anche un romanzo rosa ben scritto. Egualmente.

Dopo alcuni anni di astinenza dal genere rosa (riempiti appunto di pile e pile di libri in media di riconosciuto valore letterario) verso i vent’anni sono tornata ad acquistare Harmony, questa volta quelli da adulti. E sì, ovviamente anche quelli che in gergo si chiamano ‘smut’. Rispetto al sesso crudo dei grandi scrittori maschi (Henry Miller, soprattutto) il sesso scritto da donne eterosessuali per donne eterosessuali (per lo più) è un esercizio sociologico interessantissimo. Oltre che una fonte d’ispirazione per una giovane donna alla scoperta del proprio corpo.

Il sesso immaginato e (de)scritto dalle donne non è sempre legato a sentimenti o relazioni tradizionali, ma è spesso connesso a tematiche di autostima, rispetto, ricerca di sé, riti di passaggio, gestione di traumi, emancipazione dalle aspettative sociali.

E proprio per questo è di norma molto più coinvolgente e interessante da leggere.

Questa è la parte che preferisco dei romanzi rosa e il motivo per cui, anche se come ogni opera di genere seguono rigidi modelli e schemi di trama, non mi stanco di leggerli. C’è un effetto catartico enormemente piacevole nel leggere della rivincita personale di una protagonista (che al termine della storia riscopre sé stessa, è amata per quel che è, si ritaglia uno spazio nella società anche al di fuori dalle sue regole). Nella vita non succede quasi mai che queste rivincite vengano portate a termine, come sapeva Jane Austen. Non è un caso che la trama di Pride and Prejudice sia diventato l’archetipo originale del romanzo rosa, anche se involontariamente.

Potrei andare avanti a lungo su questo argomento. Anche perché con l’avvento di internet e delle opzioni di self-publishing offerte soprattutto da Amazon, il genere del romanzo rosa si è definitivamente liberato delle gabbie imposte dalle case editrici. Oggi i sotto-generi (college romance, sport romance, paranormal romance, ecc) hanno preso vita propria e trovato nuovi lettori, che con il loro interesse e desiderio di leggere ispirano i nuovi scrittori di genere a trovare nuove strade e nuovi modi di lavorare all’interno degli schemi del genere.

Internet e il fenomeno del self-publishing sono anche il motivo per la quantità impressionante di romanzi rosa distribuiti ogni settimana. You’ve got to love the market. Le leggi del libero mercato, il meccanismo di domanda e offerta, non funzionano sempre perfettamente, ma nel mercato del romanzo rosa stanno funzionando discretamente.

Con l’aumento esponenziale dell’offerta la selezione sulla qualità è diventata spietata, e la qualità letteraria media dei prodotti si è notevolmente alzata.

E torniamo a me. Da quando ho ripreso a leggere romanzi rosa ho incontrato tanta spazzatura, ma ho anche letto libri scritti seriamente bene, di una scrittura semplice nel senso migliore del termine. Essenziale, dimostrativa invece che descrittiva, con ottimo ritmo, dialoghi realistici e scoppiettanti, personaggi interessanti e insoliti, che crescono nelle pagine della storia. Leggere romanzi rosa di qualità è un’ottima palestra di scrittura per chi scrive per lavoro di questi tempi. Allena l’orecchio al ritmo di una comunicazione che è diventata enormemente più veloce, ma che non per questo deve perdere di significato. Credo sia anche per questo che dopo tanti mesi di difficoltà, da quando ho ripreso a leggere anche questi romanzi la scrittura è tornata ad essere naturale per me.

Leggere insegna a scrivere. Leggere romanzi rosa mi ha restituito creatività e ispirazione.

Poi è un ottimo anti-depressivo! L’effetto catartico che ricordo dai primi Harmony che leggevo è rimasto intatto. Amplificato persino, quando i romanzi che leggo hanno protagoniste intelligenti, ambiziose, magari anche un po’ “strane”. Qualche mese fa ho letto un pezzo sull’Huffington Post dell’autrice di un interessantissimo studio sui romanzi rosa, The Dangerous Books For Girls. Maya Rodale (anche lei scrive romanzi rosa) ha condotto una ricerca tra i lettori di genere negli Stati Uniti nel 2014 e ha scoperto che il 60% degli intervistati si considera femminista, che le qualità cercate in un’eroina sono soprattutto intelligenza, senso dell’umorismo e indipendenza, e il 62% degli intervistati ha affermato di credere che i romanzi rosa siano uno strumento di empowerment femminile.

Leggo romanzi rosa per vedere donne in cui mi posso identificare ottenere un autentico lieto fine (che non inizia o finisce con il lieto fine romantico). Quando le giornate vanno storte è un’ottimo modo per ricordarmi che domani potrà andarmi meglio.

—

Se non avete mai letto romanzi rosa, o non lo fate da un po’, vi lascio qui sotto qualche titolo che ho amato molto negli ultimi mesi.

Per la maggior parte sono titoli in inglese per due motivi semplici: 1. molta della produzione migliore, essendo indipendente o auto-prodotta, non è tradotta 2. purtroppo le traduzioni di genere in italiano sono spesso scritte malino. Non tanto per colpa dei traduttori, quanto per come funziona l’industria editoriale e per le quotazioni scandalosamente basse e le pessime condizioni di lavoro dei traduttori. Per farvi un’idea di cosa intendo leggetevi il romanzo di Silvia Pillin, Non un romanzo erotico.

I link inseriti in questo post sono affiliati, quindi se acquistate uno dei titoli che sto consigliando una percentuale dei profitti arriva a me. Grazie in anticipo se sceglierete di seguire questo canale.

Cinder & Ella – divertente rivisitazione della favola di Cenerentola ambientata nel mondo del fantasy e della fan fiction, genere young adult clean con protagonisti tra adolescenza e primi vent’anni e niente sesso. Della stessa scrittrice ho amato molto anche The Libby Garrett Intervention (in cui un’adolescente grassottella viene salvata da una relazione distruttiva da un gruppo di amici, perché non è detto che quando l’eroe popolare si lascia sedurre dalla ragazza alternativa la storia finisca bene) e If We Were A Movie (una studente di cinema condivide l’appartamento a New York con uno studente di musica, sotto-genere da amici ad amanti).

The Hook Up (in italiano La partita vincente) – la ragazza intelligente e lo sportivo tutto muscoli, in una storia di “solo sesso” che interpreta diversi cliché del genere college romance, capovolgendoli.

Qualsiasi cosa di Penny Reid, da Elements of Chemistry (college romance tra la nerd asociale e il ricco ragazzo più popolare della facoltà) a Dating-Ish (in cui uno scienziato che sta inventando un robot per appuntamenti incontra una giornalista in cerca di un compagno) passando per gli altri romanzi della serie Knitting in the City. Penny al momento è la mia scrittrice preferita di romanzi rosa. L’unica di cui compro qualsiasi cosa pubblichi.

La trilogia Lovely Vicious di Sara Wolf – esempio di successo indipendente acquistato da una grande casa editrice, e di come dialoghi e personaggi ben congegnati possano far digerire trame al limite della credibilità.

The Only Thing Worse Than Me Is You – una rivisitazione di Molto Rumore Per Nulla ambientata in un liceo per ragazzi super intelligenti. Conoscere la trama originale non toglie nulla al piacere di leggere la storia, che anche qui si mescola a un mistero.

Insieme siamo perfetti (traduzione mediocre dell’originale Punk 57 non disponibile su Kindle al momento) – protagonisti adolescenti, storie estreme e un po’ improbabili, tanto sesso, eroina fastidiosa e antipatica… un insieme di ingredienti ‘sbagliati’ che producono un risultato davvero godibile.

Per chi ama il genere storico i romanzi di Lisa Kleypas sono una garanzia. Uno fra tutti Suddenly You (All’improvviso, tu) – la storia di una scrittrice che si regala un’avventura per i trent’anni.

Immagine di copertina di JC Dela Cuesta via Unsplash.

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Ispirazione vs aspirazione

Ottobre 5, 2018 da Barbara

diario di babepi | ispirazione

Era un po’ di tempo che avevo in testa di scrivere della differenza tra ispirazione e aspirazione, e poco importa se questo post apparirà più come il mio tentativo di giustificare razionalmente perché odio Gwyneth Paltrow e adoro Sarah Jessica Parker.

La verità è che la questione è filosofica e importante, e per chi si occupa di comunicazione credo abbia risvolti anche morali. Lasciatemi spiegare.

Alla base, ispirazione e aspirazione semplicemente riflettono il modo in cui “respiriamo” le sollecitazioni creative:

  • quando raccogliamo ispirazione è come se inspirassimo idee, suggestioni, storie, facendole nostre e usandole come nutrimento per la nostra vita interiore
  • quando aspiriamo a un modello di fatto stiamo espirando nel mondo l’ispirazione che abbiamo assimilato, creando, agendo un cambiamento, crescendo in qualche modo

Questa bella metafora è illustrata in modo positivo in un breve post di Leo Babauta. Ma nella realtà delle strategie di comunicazione le due motivazioni vengono di solito associate a diversi obiettivi:

  • quando si offrono spunti di ispirazione a lettori, clienti e appassionati lo si fa di solito con l’obiettivo primario di essere utili, di fornire a chi ci ascolta elementi da accogliere liberamente e su cui creare, esercitare la propria individualità, scoprire i propri gusti. Si ispirano i lettori a scoprire nuovi mondi, i clienti a interpretare l’acquisto in modo nuovo, gli appassionati a co-creare un mondo.
  • quando si costruisce un modello aspirazionale l’obiettivo invece è generare desiderio, di norma capitalizzando sulla costruzione di una mancanza. Ai lettori viene mostrato cosa dovrebbero voler diventare, ai clienti cosa manca nella loro vita, agli appassionati in che modo non sono come il modello a cui tendono.

Un bell’esempio di questa differenza sono proprio gli imperi commerciali che ruotano intorno alle due attrici americane Sarah Jessica Parker e Gwyneth Paltrow.

Sarah Jessica Parker e l’ispirazione

Il successo della serie tv Sex and The City è stata la prima occasione di grande visibilità per un’attrice che fino a quel momento si era limitata a ruoli da comprimaria o da caratterista, e che in breve tempo è diventata invece un’icona di stile per milioni di donne in tutto il mondo.

Prima ancora di mettersi a “vendere” Sarah Jessica Parker era già insomma una fonte di ispirazione, seppure solo tramite un personaggio. E che il suo fosse già allora un modello ispirazionale invece che aspirazionale lo segnala il fatto che le sue ammiratrici amavano dire “Carrie sono io”, non “vorrei essere come Carrie”.

Il personaggio di Carrie Bradshaw (ossessionata dalle scarpe, ma anche abile scrittrice e avida lettrice) ha offerto ad almeno due generazioni di donne non un modello a cui tendere e col quale uniformarsi ma uno specchio in cui ri-scoprirsi e sentirsi validate per le avventure e le sperimentazioni (personali e creative). Uno sprone per fare cose nuove e sentirsi meglio nella propria pelle, non per cambiare.

Non è un caso, credo, che le due principali avventure commerciali di Sarah Jessica Parker siano diventate una linea di scarpe coloratissime e a prezzi quasi normali (partono da circa $180) e la collaborazione con Penguin Random House per creare una collana di libri, SJP for Hogarth.

Goop e l’aspirazione

La leggenda vuole che nel 2008 Gwyneth Paltrow abbia inviato la sua prima newsletter Goop dalla cucina della sua casa in zona Belsize Park a Londra. Me la sono andata a rileggere, perché sì, appena era girata la voce mi ero andata a iscrivere, ansiosa di leggere i consigli da insider dell’attrice che amo meno al mondo (nessuno è perfetto).

Il modello di Goop inizialmente era infatti del tutto ispirazionale, dal momento che si fondava sul desiderio di condividere con il grande pubblico informazioni e consigli da “vita privilegiata” ma alla portata di tutti. Nei primi mesi si trattava davvero di informazioni e consigli che volendo chiunque avrebbe potuto seguire anche senza essere bella, ricca e magra, ovvero senza rivoluzionare la propria esistenza.

Ma nel momento in cui la piccola newsletter ha cominciato ad avere ambizioni di crescita e di business, il modello di Goop è cambiato completamente. Ora è consistentemente costruito sul far sentire chi lo segue “non abbastanza” fino a che non ha acquistato uno dei prodotti/servizi commercializzati o promossi dal marchio. Di più, Goop prospera sulle frustrazioni delle donne con la propria carriera, le proprie relazioni, il proprio corpo, in modo sempre più pericoloso, come ha sottolineato un articolo apparso ad agosto sulle testate del gruppo CBC.

Non costruisci un impero da 250 milioni di dollari se non ti sposti dallo schema “guarda che meravigliose potenzialità racchiudi” allo schema “senza questo prodotto/servizio le tue potenzialità rimarranno inespresse”, ovvero dalla logica “puoi essere/fare ciò che vuoi” alla logica “da sola non sei abbastanza”.

Perché è così importante avere consapevolezza della differenza tra questi due modelli comunicativi?

Prima di tutto credo nell’enorme potere della comunicazione, e con grandi poteri bla-bla-bla. Sul serio, quando si lavora per promuovere un prodotto, un servizio o un messaggio si può senz’altro decidere di costruire sulla “distruzione” della personalità e dell’individualità del cliente, capitalizzare sulle sue insicurezze, tenerlo nell’ignoranza con fake news e generarli dipendenza. Ma questo genere di approccio è inequivocabilmente moralmente infame.

Come moralmente infame è vendere continuamente servizi inutili agli stessi clienti, facendo loro credere che ne abbiano costantemente bisogno. Ne sappiamo qualcosa anche in Italia dove impazzano “guru” di self-help, marketing e organizzazione che ripropongono ogni anno gli stessi contenuti agli stessi clienti con giusto una passata di airbrush.

Ma oltre che infame è rischioso. I business e le imprese che puntano esclusivamente sul modello aspirazionale tendono ad avere vita breve. Prima o poi il pubblico si stanca di sentirsi bastonare, di desiderare cose che non può avere, di fare debiti per procurarsele, di vedersi rivendere sempre le stesse cose anche quando non ne ha bisogno.

Immagine di copertina di Jason Leung/Unsplash.

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Insegnare quando non si nasce insegnanti

Settembre 21, 2018 da Barbara

diario di babepi | insegnare

Insegnare è prima di tutto una vocazione, ho sempre pensato così. Una vocazione che non ho mai sentito. Per questo sono rimasta un po’ stupita, a oltre quarant’anni, di ritrovarmi a insegnare spesso, volentieri e con profitto.

Sono figlia di un’insegnante, quindi quando ho messo giù il piano di studi all’università ho fatto attenzione a non infilarci esami di geografia o storia che al tempo erano necessari per poi affrontare le abilitazioni. Avevo visto cosa ci volesse per insegnare con successo, ovvero trasmettendo davvero e senza secondi fini delle conoscenze e/o delle competenze utili agli studenti. Quella vocazione, la genuina motivazione a volere il meglio per chi riceve l’insegnamento, pensavo proprio di non averla.

Però poi la prima esperienza di lavoro serio, con contratto è tutto, l’ho avuta quando per un anno sono stata lettrice di italiano all’Università di Coventry, nel Regno Unito. Dopo avere sostenuto un concorso nazionale che richiedeva parecchio studio di didattica e psicopedagogia. Sono passati esattamente vent’anni da quella prima docenza e nel frattempo mi sono ritrovata coinvolta meno mio magrado in diverse esperienze professionali di formazione.

A guardare indietro direi che, a differenza della prima, sono tutte scaturite da questo mix di condizioni:

  • un argomento di cui mi sono appassionata
  • l’intuizione di una chiave di lettura di questo argomento per me importante e utile
  • persone che mi chiedono di condividere questa chiave di lettura
  • la convinzione che se più persone avessero le informazioni che ho io il mondo sarebbe un posto migliore

L’ultimo punto è del tutto privo di retorica. Temo di avere un approccio molto egocentrico alla filosofia “voglio un mondo migliore”, ed è che “voglio un mondo migliore per me”. Sorry, not sorry. Però sì, questa convinzione tende ad accompagnarmi ogni volta che parlo a una platea cercando di insegnare qualcosa.

Il fatto è che quando mi appassiono a un argomento divento una specie di macchina da guerra della ricerca bibliografica.

Su carta o su web, cerco di mettere le mani su qualsiasi fonte disponibile, scremo e spulcio fino a trovare i concetti per me importanti, e poi faccio prove o cerco di parlare con persone che provano sul campo. Faccio miei tutti gli elementi che ritengo specifici dell’argomento e in quel farli miei tendo sempre a trovare collegamenti.

È in questa fase che, spesso, nasce l’intuizione di una visione d’insieme dell’argomento, di una chiave di lettura mia personale.

Nulla di straordinario, è sempre stata la cifra stilistica del mio imparare. Prendo ogni singolo pezzetto di informazione e gli trovo posto in uno schema mentale che per me ha un senso. Poi faccio un passo indietro e guardo il quadro d’insieme, spesso vedendo collegamenti o conseguenze insolite, e qui di solito scatta la voglia di parlarne con tutti. Perché mi sembra di avere scoperto chissà cosa e voglio che lo sappiano proprio tutti.

Condividere le mie convinzioni riguardo ad argomenti comuni è probabilmente lo scopo principale con cui ho sempre usato i social network.

Se vogliamo è un po’ per fare proselitismo, quindi il passo all’indottrinamento è breve. È così che nel tempo mi è capitato che persone mi chiedessero di approfondire e spiegare. E così sono nate le mie prime esperienze di formazione con i progetti Dalla Parte Degli Sposi e Il Blog Lab prima, con ciò che ho scritto e insegnato per C+B dopo, e poi nelle numerose situazioni in cui ho organizzato laboratori per conto della testata CasaFacile di Mondadori.

Ogni volta che mi sono trovata dietro a una cattedra a parlare l’ho fatto rispondendo alla domanda “cosa c’è di utile, importante e facile da praticare che manca a queste persone?”.

Prima di tutto perché davvero non sopporto gli sprechi, quindi ritengo che se una persona mi viene ad ascoltare debba come minimo scoprire qualcosa di nuovo e utile. Poi perché credo fermamente nell’autonomia, quindi voglio che chi impara qualcosa da me si senta poi anche forte e sicuro al punto da tornare a casa e provare a mettere in pratica quel che ha imparato, e riuscirci col minimo sforzo, per poter poi non avere più bisogno di me.

Stavo per scrivere che voglio liberare chi mi ascolta dalla dipendenza dagli esperti, ma non è vero, ovviamente. Gli esperti di materie importanti e prioritarie (salute, economia, politica, scienza, ecc.) sono fondamentali e imprescindibili, e affidarsi alla loro conoscenza è ben lontanto dall’essere una forma di dipendenza. Vivaddio non insegno mai cose che stiano nel quadrante uno della matrice di Eisenhower o da cui dipenda la vita delle persone. Ma insegno competenze e strategie che possono avere impatti importanti nella vita di chi mi ascolta ed è bene che io me ne ricordi sempre per scegliere con cura i principi che voglio trasmettere.

Ecco, questo insieme di condizioni è stato sempre alla base dei progetti di formazione che ho coordinato o messo in pratica in questi anni.

E forse, guardandomi indietro, è quello che ne ha dettato il discreto successo. Non nel senso di fama, ma nel senso del portare risultati tangibili e determinanti nella vita delle persone.

Fino all’anno scorso, per molti motivi, consideravo comunque i servizi di formazione una componente marginale del mio lavoro, qualcosa che intraprendevo a richiesta. Poi ad aprile 2018 ho ricevuto un messaggio da una donna che aveva partecipato a uno dei miei corsi, e con la quale in seguito ero rimasta in contatto, offrendole ulteriori consigli per il puro piacere di aiutare una persona in gamba a sbocciare in una professionista di cui mi sarebbe piaciuto avvalermi in futuro (di nuovo, zero spirito di carità da queste parti).

C. mi chiede se può telefonarmi, le dico sì, certo, mi chiama e mi racconta che dopo anni di gavetta in regime di collaborazioni, prove, corsi (sta completando un processo di qualificazione professionale che nel suo settore hanno solo dodici persone al mondo) ha finalmente aperto la partita IVA e guarda a un volume di business di tutto rispetto per l’anno prossimo. E mi dice “in qualche modo lo devo a te, a quello che mi hai insegnato e all’incoraggiamento con cui mi hai spinto a tirar fuori qualcosa dalla mia passione”.

Ecco, è stato in quel momento che ho capito di essere diventata un’insegnante vera.

Tutta ‘sta manfrina per dire che lunedì qua in Emilia Romagna sono ricominciate le scuole e io sto mettendo mano ai programmi per i corsi di Alternanza Scuola Lavoro che organizzo, con Fuoririgo e per conto di CNA, presso le scuole superiori di Modena. Quindi ovviamente la mia mente è piena di riflessioni sul mio ruolo da insegnante.

Immagine di copertina di William Bout/Unsplash.

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Artisti che seguo su Instagram

Maggio 10, 2018 da Barbara

diario di babepi | artisti su instagram

Una delle mie più grandi conquiste creative personali è stato il recupero del piacere di usare Instagram… per piacere, appunto

Non più come uno strumento di web marketing per il mio marchio personale, ma su un duplice binario:

  1. per condividere momenti di creatività spiccia personali (foto che immortalano momenti che voglio ricordare o inquadrature visive che mi colpiscono, poesie di scarsa qualità, anche rant, a volte), e anche per questo ho scelto di avere un profilo privato
  2. per vedere, scoprire o leggere scorci di mondo stimolati

Non seguo profili di colleghi o competitor o clienti per tenere il passo, quelli li esamino mentre lavoro su un progetto e a seconda delle necessità. Non seguo i profili di tutti gli amici. Non seguo profili di persone da cui voglio imparare qualcosa di professionale.

Viceversa mi capita spesso di seguire la traccia di un post che cattura la mia attenzione e mi incuriosisce, e, di follow in follow o di like in like, finire a scoprire feed che è un piacere avere nella mia home.

È così che mi sono ritrovata a seguire alcuni profili secondo me splendidi ma che ho notato non sono molto conosciuti in Italia. Ed è un vero peccato, e un errore che sono felice di correggere condividendo qui le mie scoperte estemporanee.

Comincio con tre profili di artisti in senso lato.

Per il feelgood factor

A Camry Not the carriage of my choice #uber #carriageneeded.

Un post condiviso da Lauren (@virtuouscourtesan) in data: Dic 17, 2017 at 10:41 PST

Viruous Courtesan

Lauren Rossi è un’impiegata newyorkese con la passione dei costumi antichi, che realizza e cuce interamente a mano per il puro piacere di indossarli e calarsi in un’epoca diversa. In tutta franchezza, come darle torto? E soprattutto, come non invidiare la sua esperienza a Versailles in costumi settecenteschi?

Per la poesia visiva

Heated… #pascalcampion #pascalcampionart #sketchoftheday #warmth #couples #illustration

Un post condiviso da Pascal Campion Art (@pascalcampionart) in data: Apr 26, 2018 at 12:00 PDT


Pascal Campion

Non ricordo neanche più come sono incappata nelle magiche illustrazioni di Pascal Campion, ma da quel primo momento non ho più potuto farne a meno. I suoi disegni pieni di luce ed emozione raccontano storie coinvolgenti in un attimo sospeso. Le guardi e vedi la storia che si dipana, sentimenti che scorrono sui visi dei protagonisti, l’ambiente che sembra muoversi sullo sfondo della narrazione. Sono piccoli capolavori che rallegrano il mio feed.

Per la poesia contemporanea

No. 34 / #HaikusForFormerLovers

Un post condiviso da Caroline Cala Donofrio (@carolinecala) in data: Nov 14, 2017 at 1:04 PST


Caroline Cala

Il mondo ricchissimo del fenomeno #instapoetry è spesso popolato da realtà con scarso spessore artistico, ma la serie di #HaikusForFormerLovers è un piccolo capolavoro di ironia, micro-creatività e realismo bruciante per chiunque navighi la scena delle relazioni.

Immagine di copertina di Spencer Imbrock/Unsplash.

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Da qualche parte bisogna pure ricominciare

Aprile 27, 2018 da Barbara

diario di babepi | inizio


Io lo faccio da qui.

Da un sito montato su in due giorni, dalla suggestione di un bel rosso carico e del mio blu adorato. Da un mese di aprile che è già quasi maggio.

Dalla consapevolezza che mica posso arrivare al Freelancecamp senza un sito!

Immagine di copertina di Dmitri Popov/Unsplash.

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