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trovare uno scopo

Definisci il tuo scopo e decidi cosa vuoi fare da grande

Ottobre 23, 2020 da Barbara

Fare piani per il futuro in un momento di incertezza globale è complesso, ma mai come in questo momento storico è fondamentale che ti interroghi sui tuoi obiettivi di lungo termine, per navigare gli imprevisti con la mano sicura sul timone della direzione in cui vuoi andare. Le grandi aziende lo chiamano ‘scopo’, un termine che fino a poco tempo fa sembrava applicabile solo alla sfera personale delle persone. 

Per me si traduce più facilmente in “quello che voglio fare da grande” e in questo post ti racconto come e perché è utile definirlo, a qualsiasi età.

Cosa ha “quello che voglio fare da grande” a che fare con lo scopo? Cerco di spiegartelo partendo dal senso che per me ha questa espressione.

Quando hai più di quarant’anni e parli di quello che “vuoi fare da grande” le reazioni delle persone sono di norma di due tipi: un sorriso, pensando che tu stia usando la frase con autoironia, oppure velato disprezzo, traendo conclusioni sulla tua maturità e sul tuo successo personale.

Nessuna di queste interpretazioni considera l’ipotesi che  “da grande” possa non essere un punto di arrivo, ma una potenzialità che si esaurisce davvero solo con la morte. Questa è esattamente la valenza che ha la frase per me.

A sostegno della mia interpretazione ci sono diversi argomenti:

  • i tempi in cui viviamo, soggetti a un’accelerazione pazzesca dal secondo dopoguerra ad oggi, vedono le condizioni di vita in continua evoluzione e richiedono aggiustamenti e adattamenti altrettanto continui;
  • le mutate aspettative di vita portano ciascun* di noi a immaginare un’esistenza almeno parzialmente attiva anche oltre i sessanta/settantant’anni, dandoci più tempo per portare a maturazione un percorso e spazio per esplorarne altri;
  • la crisi del sistema pensionistico difficilmente ci permetterà (anche se lo volessimo) di ritirarci a sessanta/stettant’anni 😉

In sostanza, le generazioni dalla X in poi difficilmente possono permettersi di scegliere una carriera a venti/trent’anni e tenersela fino al momento della pensione (di Stato o auto-finanziata che sia). 

Quello che capita più spesso è che nel corso della tua vita lavorativa tu passi da un settore all’altro, da una professione all’altra, continuando a formarti, aggiornarti, guardarti intorno alla ricerca di una soluzione che meglio ti permetta di sentirti realizzat* e di guadagnarti da vivere allo stesso tempo.

Insomma, se sei nat* dopo la seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso, quello che vuoi “fare da grande” non è un mestiere finito, ma al massimo una tendenza.

In un contesto di dinamismo come questo, il rischio più grande non è scegliere la professione sbagliata, ma spostarti quasi a caso da una professione all’altra rispondendo esclusivamente agli input esterni.

Così facendo le tue decisioni sarebbero guidate non dalla tua identità, dai tuoi valori, dalle tue aspirazioni, ma esclusivamente dagli eventi. Quindi da un insieme di fattori quasi completamente scollegati tra loro, privi di una logica di unità. Soprattutto che non contribuiscono al raggiungimento dei tuoi obiettivi.

È per questo che vale sempre la pena interrogarti sullo scopo che vuoi raggiungere con la tua esperienza lavorativa. 

Sia a titolo personale, ma non solo.

Mi spiego, è evidente che il tuo scopo abbia a che fare con la tua sfera personale, la tua identità, i tuoi valori e le tue aspirazioni come dicevo qui sopra. A questo poi si aggiunge l’impatto che vorresti che queste decisioni avessero sulla tua vita, quanto ti renderanno felice o realizzat* e così via.

Ma la riflessione è più ampia e se lavori da dipendente riguarda anche l’impatto che vuoi lasciare sull’organizzazione (o le organizzazioni) con cui lavori, sui tuoi colleghi e le tue colleghe, su fornitori e clienti. Se sei un* liber* professionista o titolare di un’azienda, riguarderà poi le tue scelte di business e l’impatto della tua attività su chi collabora con te e sulle persone che aiuti, oltre che sull’ecosistema di cui fa parte la tua impresa.

Insomma, decidere quel che vuoi “fare da grande” comporta rispondere a una serie di domande che possono apparire enormi.

In realtà, se le affronti con apertura e serenità il processo si rivela molto più semplice del previsto, per questo ho pensato di dedicare all’argomento un post.

Già qualche settimana fa ho cercato di convincerti che si potesse pianificare il futuro anche in un momento di incertezza, anzi fosse ancora più importante farlo proprio in questi casi. Qui ti invito a fare un esercizio di progettazione a lungo termine per il tuo lavoro, a partire da un elenco di domande, da affrontare nell’ordine in cui te le propongo:

Come ti immagini il punto di arrivo?

Quando faccio questa domanda alle persone con cui lavoro la formulo in modo se vuoi un po’ macabro: se guarderai indietro dal tuo letto di morte, cosa vorrai aver realizzato? Trovo che aiuti tutt* a visualizzare in modo immediato il futuro che vorrebbero. Provaci anche tu: chiudi gli occhi e visualizza il tuo punto di arrivo, con te al centro.

Quali saranno le conseguenze sulle persone che ami, sulle persone con cui lavori, sulla tua clientela?

Lascia perdere l’impatto che la tua scelta avrà su di te, ci hai già pensato implicitamente rispondendo alla prima domanda. Ora è il momento di concentrarti sugli altri, partendo dalle persone di cui ti importa in più.

Che impatto avrà la tua realtà del futuro sull’ambiente in cui vivi e sulla società di cui fai parte?

Immagina il cambiamento che potrai provocare intorno a te, nel tuo piccolo. Insieme alla risposta alla domanda precedente, questa descrive la tua legacy, l’eredità che lascerai al mondo.

Ora lavora a ritroso dalla tua visione del futuro remoto: quali sono le azioni che devi fare, dalle più lontane alle più vicine, che ti permetteranno di costruire quel futuro?

Non pensare al dettaglio, ragiona piuttosto per fasi di ampio respiro. Anche senza mappare ogni singola azione dei prossimi quarant’anni puoi comunque identificare dei traguardi intermedi verso cui puntare nel medio-breve termine.

Non dimenticare le influenze esterne, quali fattori incideranno maggiormente sulla riuscita della tua costruzione?

Pensa agli ostacoli che dovrai superare, alle tue difficoltà di partenza, a eventuali imprevisti che potrebbero interporsi tra te e il tuo obiettivo finale.

Ora hai la tua risposta, ed è molto più semplice di quanto non sembrasse all’inizio.

Il tuo scopo è ottenere le risposte alle prime tre domande, mettendo in pratica le azioni ricavate rispondendo alla quarta domanda e tenendo sotto controllo le influenze esterne che hai scoperto con la quinda domanda.

Quello che “farai da grande” prenderà nel tempo diverse forme, ma sarà quel ruolo o quella professione che ti permetterà di portare avanti le azioni necessarie a realizzare il tuo scopo.

Visto? Così è molto più semplice, no? Rende anche più sopportabile tutte le battute di arresto, e le pause che potrai o dovrai prenderti lungo il cammino, perché ti insegna a vederle come delle tappe di un percorso che controlli invece che come delle spinte fuori strada.

È un processo di auto-analisi che puoi ripetere quante volte vuoi.

Per me per esempio, è parte integrante del mio percorso di definizione degli obiettivi, che ripeto ogni anno, rivalutando le mie scelte sulla base delle condizioni aggiornate in cui mi trovo.

Ma ti confesso che più tempo passa e più anche le revisioni tendono a iscriversi nel solco della tendenza che ho tracciato anni fa. Ormai sono arrivata al punto che guardando indietro, pur avendo ricoperto diversi ruoli, riesco a vedere la traccia del mio scopo già nella mia adolescenza.

Se non hai mai dedicato tempo a questo processo, ti consiglio di farlo adesso. Non credo davvero ci sia momento migliore 😊

Immagine di copertina di Nick Fewings/Unsplash.

Archiviato in:cose di strategia Contrassegnato con: trovare uno scopo

Cosa vuol dire per me progettare uno stile di vita

Marzo 6, 2020 da Barbara

Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana, prima di avere un esaurimento, organizzavo matrimoni. Avevo un modello di business straordinariamente personale eppure del tutto insostenibile psicologicamente. Come spesso mi accade non avevo fatto tesoro dei miei stessi consigli, o lo avevo fatto solo in parte.

A distanza di quasi tre anni, pur non avendo risolto tutti i miei errori di allora, posso dire di essere riuscita a disegnarmi uno stile di vita sostenibile e che mi fa stare bene. Non a caso parlo di stile di vita e di disegnarlo, perché ho sempre l’impressione che parlare di organizzazione, tempo, e vita o lavoro sia riduttivo e limitante.

Qui è dove mi prendo lo spazio per spiegare compiutamente di cosa parlo quando parlo di progettare uno stile di vita.

Sono arrivata a pensare in termini di “lifestyle design” nel 2016, per lanciare una serie di servizi personali di strategia e organizzazione (sono di nuovo disponibili, qui). Si trattava di consulenze create intorno alle mie capacità di organizzazione, alle mie conoscenze di strumenti utili a pianificare e dare forma alle strategie, e al mio approccio incondizionatamente dalla parte dei miei clienti.

Per la prima volta avevo deciso di mettere tutto questo al servizio di ogni donna che avesse difficoltà a ritagliarsi una vita che rispecchiasse davvero la propria identità e i propri desideri, senza farsi influenzare dalle aspettative esterne.

Cosa intendo per lifestyle design

A prescindere dalla scelta del 2016 di un termine inglese per amore di brevità, il concetto di “disegnarsi uno stile di vita” mi piace per diversi motivi.

Tanto per cominciare quando si parla di stile di vita il lavoro non è necessariamente centrale.

Trovo che gli approcci che danno per scontato che la vita di una persona sia determinata dalla sua professione, da ciò che fa per lavoro, partano di per sé con un bias culturale che rischia di silenziare le reali aspirazioni della persona.

Per intenderci, il percorso Designing your life di Dave Evans e Bill Burnett, giunto a fama planetaria proprio nel 2016 con un libro dallo stesso titolo, pur parlando di “vita”, è pensato per aiutare le persone a trovare una vocazione professionale che permetta loro di avere una vita “gioiosa” e “piena”.

Ma cosa succede se una persona, legittimamente, preferisce costruire la propria vita intorno a un’altra vocazione, non lavorativa? Cosa succede a chi sceglie un lavoro manuale e ripetitivo solo per avere uno stipendio e poi dedicare il proprio tempo libero ad altro? Un’autista di autobus non ha la possibilità di vivere una vita “gioiosa” e “piena”?

Il concetto che la vita di ciascuno di noi sia fortemente determinata dal lavoro che facciamo è molto culturalmente definito (a dirla tutta, molto Statunitense). Ma io, per esempio, non mi ci identifico affatto. Non ritengo che ciascuno di noi sia definito da ciò che fa, ma da ciò che è. Persino le persone per cui il lavoro è il cardine della propria esistenza (e per loro il metodo Evans e Burnett è sicuramente indicato) secondo me sono in quella condizione perché hanno fatto una scelta consapevole che deriva dalla loro identità.

Ma al contrario da ciò che Evans, Burnett e generazioni di motivatori Statunitensi pensano, il lavoro che scegliamo non può sempre essere determinato dalla nostra vocazione e motivazione. Spesso dipende da altri fattori, come la fortuna e le opportunità, che come sappiamo non sono pari per tutti, dalle scelte che altri fanno per noi, dal nostro genere, dal colore della nostra pelle, dall’accento con cui parliamo la lingua del paese in cui decidiamo di vivere. E potrei andare avanti.

Quello che nessuno può influenzare, se non glielo permettiamo, che non dipende così pesantemente da fortuna, tempismo, e scelte altrui, è la nostra identità. Chi siamo.

Quando parlo di stile di vita io intendo precisamente l’applicazione dell’identità di ciascuno di noi alla sua vita.

E questa scelta, lo scopo (anche non professionale) che abbiamo nella vita, con chi decidiamo di stare, quello che decidiamo di fare del nostro tempo, può compierla liberamente chiunque, a prescindere dalle sue scelte professionali.

Perché non parlare di vita e basta, allora? Perché la vita, come il lavoro, non dipendono soltanto da noi. Non viviamo in un tunnel di plexiglass che corre verso il nostro obiettivo, ma in ecosistemi fluidi in cui le scelte microscopiche di un bambino dall’altra parte del mondo possono avere ripercussioni anche su quello che succede a noi.

Pensare di poter controllare e influenzare complessivamente la propria vita, in ogni sua singola unità di tempo, è arrogante e del tutto irrealistico. Meglio quindi concentrarsi sullo stile che vogliamo che abbia, sulle sue linee guida. Sapere la direzione in cui ci vogliamo muovere, senza voler definire ogni singola tappa, ci permette di rimanere flessibili lungo il percorso e più reattivi agli imprevisti.

Nel 2016 non sapevo nulla del metodo di Evans e Burnett perché del libro ancora non si parlava in Italia, ma la scelta di usare il verbo “design” nel senso di “progettare” e pianificare insieme, per me è stata programmatica.

Il mio “design” non è un metodo, non suggerisco di applicare il design thinking alla costruzione del proprio stile di vita. Prima di tutto perché ritengo che non esista un unico metodo per fare le cose correttamente, proprio come non esiste un metodo adatto a tutti per imparare una certa disciplina.

La mia progettazione è un approccio, piuttosto.

Disegnare per me è tracciare su carta i confini di un’esistenza che ci farà sentire realizzati, per creare uno schema dentro cui muoverci più sicure, libere dal panico da pagina bianca che spesso ci porta a guardare più facilmente al passato che al futuro.

La metafora della scrittura per lo stile di vita ha sempre avuto grande risonanza per me, non a caso ho trovato una frase di Luisa Carrada relativa alla scrittura che spiega benissimo il mio approccio allo stile di vita:

Il segreto per non cadere preda dell’ansia e del blocco della pagina bianca è… non avere davanti una pagina bianca. Riempiamola con il programma di viaggio, che definiremo via via con maggiore precisione. Non limita la nostra libertà, ci sbarazza invece di qualche patema d’animo.

– Luisa Carrada, Scrivere, che bello!

Un approccio per femmine

Come quando parlavo di lifestyle design nel 2016, anche quando lo faccio oggi mi riferisco a una consulenza per donne. Non è una questione di semplice posizionamento, ma è una scelta che si fonda sulla convinzione che le persone che più hanno bisogno di un percorso di “progettazione di stile di vita” siano femmine. Donne dalla nascita o dalla loro scelta di diventare donne, poco importa.

Le aspettative e gli sguardi del mondo sono innegabilmente più pesanti sulle spalle delle femmine della nostra razza, non foss’altro perché la biologia apparentemente fa gravare su di noi l’obbligo della procreazione. Anche per quello il corpo delle donne è terreno di battaglia dalla notte dei tempi.

Per una femmina (mi ostino a dire femmina e non donna perché questo è un discorso di genere, non solo di sesso) progettare uno stile di vita è anche un’azione politica, proprio perché spesso si dà per scontato che non ci sia nulla da progettare. Al massimo da scegliere se vuole una famiglia o no (e anche lì la “scelta” è raramente libera).

Offrire una consulenza di questo tipo solo alle femmine non è un modo per dire che la responsabilità di tenere in equilibrio le scelte di vita resta alle donne, è invece un modo per permettere loro di giocare ad armi pari, di offrire gli strumenti per scegliersi dei percorsi di vita senza farsi influenzare dalle aspettative, le opinioni e le richieste degli altri.

Nell’ultimo anno ho ricominciato a offrire consulenze di lifestyle design, e ora sono di nuovo prenotabili anche sul mio sito. Spero che questo post abbia chiarito cosa si cela dietro questa definizione di comodo. Soprattutto vorrei che avesse chiarito cosa non vuole essere.

Il lifestyle design non è né coaching né terapia né organizzazione personale

Non è coaching, perché non c’è alcun rapporto gerarchico tra una guida (io) e un’allieva.

In un percorso di lifestyle design tutte le analisi, le risposte, le decisioni e le scelte sono in mano alla persona che lo affronta. Il mio ruolo di consulente si esaurisce nel mettere a disposizione strumenti, cercarli quando ancora non sono noti, e offrire domande e ascolto, una cassa di risonanza per le scelte di chi affronta il percorso.

Potresti farlo da sola? Ovviamente sì, non ho inventato niente in termini di strumenti. Ma il mio contributo tutto personale è la capacità di ascoltare senza giudicare, davvero. Perché “vale tutto” per me è un principio guida.

Non è terapia perché non ha alcuna ambizione di risolvere o “curare” patologie, disagi, disturbi psicopatologici, di fare emergere aspetti inconsci.

Un percorso di progettazione è del tutto consapevole e attivo. Attinge sì a riflessioni, emozioni, desideri ma per lavorare sul fuori da noi, sull’impatto che possiamo avere su ciò che ci circonda. Non è un lavoro sul sé, ma sulla manifestazione di quel sé.

Ti serve una psicoterapia? Anche senza conoscerti per me la risposta è sempre sì. Un percorso di psicoterapia, qualsiasi tu ti possa permettere in termini di tempo, denaro, energia, servirebbe a tutti, secondo me.

Non è organizzazione personale perché non presuppone che si parta da un punto di partenza di disorganizzazione, da risolvere con l’applicazione di un metodo chiaro e univoco.

Un percorso di lifestyle design può avere senso anche quando pur essendo persone organizzate dobbiamo rivedere il nostro stile di vita nel suo complesso. E può capitare di dover ripetere un percorso di lifestyle design nel corso della vita, perché siamo cresciute o abbiamo cambiato idea o sono cambiate radicalmente le nostre circostanze.

Ti insegna a organizzarti? In parte sì, ma non è detto. Perché non è detto che sia un elemento che ti serve. È una consulenza e anche per questo si modula sulle reali esigenze di chi la richiede.

Spero di essere stata chiara e completa. Se così non fosse mi raccomando scrivimi e chiedi!

Archiviato in:cose di organizzazione Contrassegnato con: cura di sé, motivazione, pianificazione, trovare uno scopo

45 giorni per prepararmi al nuovo anno

Novembre 15, 2019 da Barbara

babepi #45daysyearend challenge

Quanto ci vuole a prepararsi a un nuovo anno per essere pronti a cogliere tutte le opportunità che ha da offrire? 5 minuti affogati in un flûte di plastica? Un paio d’ore per trasferire le date importanti da un’agenda all’altra? Una mezza giornata per mettere giù una bozza di pianificazione? Due giorni di mastermind intensivo? Una settimana di workshop? Per me vale tutto, ma quest’anno per diverse ragioni ho deciso di dedicare 45 giorni a mettere le basi del 2020. Questo post è per chi si vuole unire a me.

Da dove sono partita

Tutto è cominciato quando mi sono resa conto che a gennaio vado ad Atlanta (a fare questa cosa qui) e che dovrei arrivarci con alcune cose messe in ordine sul sito, nel mio branding e nel mio business model.

Ma da qui a gennaio lavorerò tutti i fine-settimana (con una eccezione), più tutti i giorni ai progetti lanciati in agenzia e ai piani di comunicazione 2020 per i clienti.

Un minuto dopo essermi accorta della situazione:

via GIPHY

Come spesso mi accade, è stato proprio in questo momento che mi sono detta: “perché non aiutarmi a portare a termine l’eroica impresa con una challenge di ispirazione?!” Cioè, in buona sostanza, aggiungendo un ulteriore impegno alla lista degli esistenti?

E così, per un misto di pazzia, puntiglio e intuizione, è nata l’idea di usare gli ultimi 45 giorni dell’anno per sistemare tutto quello che devo sistemare, ma facendo una sola, piccolissima cosa ogni giorno. E fotografandola su Instagram. Che ha il duplice beneficio di costringermi a farla dovendo mostrarne le cose, e animare il mio profilo dall’andamento vagamente discontinuo.

Come funzionerà

Dal 17 novembre, per 45 giorni, intraprenderò la mia pubblica impresa di azioni quotidiane per prepararmi a un anno che si annuncia assai strano e forse determinante.

Oggi su Instagram apparirà la grafica che riassume i 45 giorni, che chi vuole potrà usare anche come promemoria di dove seguire me e chiunque abbia deciso di aderire. Nel caso voi facciate parte di quelli che hanno voglia/bisogno di farsi spronare dal gruppo.

Le attività in elenco sono di sette tipi:

  • cose per stare bene di testa/cuore
  • cose da affrontare a piccoli passi
  • cose per semplificarsi la vita
  • cose per (ri)cominciare a creare
  • cose per stare bene di corpo
  • cose per badare ai soldi
  • cose per organizzare il lavoro

Sono le aree in cui ho bisogno di tenermi sveglia io, ma mi sono sforzata di renderle adatte a tutti.

Chiunque può partecipare

Infatti non bisogna avere un’attività, grandi progetti per il futuro o sogni nel cassetto per partecipare. Non serve neanche avere buoni propositi per l’anno nuovo, o essere il tipo di persona che li formula, per dire.

Per dirla tutta si può essere di qualsiasi genere/sesso/età/ecc. e in qualsiasi fase della propria vita, perché questa sfida non ha né un punto di partenza né un punto di arrivo prestabiliti.

La preparazione al nuovo anno secondo me ha senso se:

  1. scuote il nostro metabolismo di realtà, quindi il modo in cui digeriamo ciò che vediamo, viviamo, sentiamo
  2. ci allena ad affrontare l’esistenza con un senso di scopo

Insomma, non si tratta di controllare il futuro attraverso una pianificazione certosina, ma svegliarsi dal torpore del tran tran e recuperare consapevolezza dei propri desideri e della propria influenza.

Se ne sentite il bisogno, unitevi a me.

La challenge è terminata, ma se pensi di avere bisogno di un periodo di reset ora puoi scaricare gratuitamente la serie di suggerimenti e completare i quarantacinque giorni ogni volta che ne senti l’esigenza. Clicca qui per scaricare il quaderno.

C’è un hashtag da usare

Non per vezzo, ma per aiutare chi ne ha bisogno a sentirsi parte di un gruppo che insieme compie un’impresa.

Sono un tipo solitario (faccio da sola anche yoga) ma capisco che altre personalità possano sentire la necessità del “conforto del branco” o di un sistema di accountability. Per voi che siete così l’hashtag sarà un modo per sentirvi vincolat* da un impegno condiviso.

Per me sarà un modo per trovare ispirazione, quando ne sentirò il bisogno e scoprire come punti di vista diversi interpretino attività che di norma svolgo quasi in automatico.

L’hashtag è #45daysyearend. Non è facilissimo né originale, ma era libero e quindi me lo sono preso.

Le istruzioni arrivano per email

Se volete approfondire quello che sta dietro ogni azione giornaliera, niente paura. Ogni domenica a chi lo desidera manderò un messaggio email con un elenco delle attività per i sette giorni successivi e due righe di spiegazione per ciascuna. Dal secondo messaggio ci sarà anche un piccolo riassunto di come sono andati i sette giorni precedenti per me.

Saranno email molto brevi e pratiche, senza offerte di prodotti/servizi o altro, né bisogno di interagire. Saranno stampabili così potrete portarvi dietro gli appunti.

Potrete disiscrivervi dalle email in ogni momento o quando la sfida è finita, o continuare a ricevere mie notizie in futuro, se e quando deciderò di fare altre attività simili. Nell’ultima mail troverete tutte le informazioni per scegliere consapevolmente.

Vale tutto, anzi #valetutto

Non ci sono regole precise. Si può aderire per un giorno, cinque, tutti, nessuno e stare a guardare quel che succede.

L’unica vera regola è: non fatevi prendere da sensi di colpa e/o sensi di inadeguatezza se cominciate e poi abbandonate. Quel lunghissimo elenco là sopra è uno strumento: se serve lo usate, altrimenti scartatelo senza scrupoli.

Ultime cose

Già la sento arrivare la domanda: perché la grafica è in inglese? E anche l’hashtag?

La risposta è semplice: l’inglese è la lingua in cui mi organizzo, in cui faccio progetti, in cui spesso sogno, in cui scrivo più facilmente le idee creative che mi vengono. Ogni giorno su Instagram ci sarà anche la traduzione italiana dell’attività del giorno e ovviamente le email sono tutte in italiano. Ma grafica e hashtag restano in inglese.

Direi che è tutto. Se ci sono altre cose poco chiare, scrivetemi nei commenti o DM su Instagram, cercherò di rispondervi rapidamente.

Ci vediamo domenica!

Archiviato in:cose di organizzazione Contrassegnato con: finding purpose, motivation, pianificazione, trovare uno scopo

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Dal 1997 babepi è il nickname di Barbara Pederzini, cioè io. Dal 2009 lo uso per lavoro, per proporre consulenze, contenuti e formazione a piccole e grandi aziende.

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