Piccolo disclaimer: ho cominciato a scrivere questo post nel 2019 e l’ho portato avanti a febbraio, nei tempi giusti. Poi non l’ho finito di scrivere fino al 15 aprile 2020. Lo trovate qui, datato con la data che doveva avere originalmente perché ci tenevo che apparisse così per chi in futuro andrà a cercare cosa succedeva in quelle settimane quando ancora non ci eravamo accorti di essere in una pandemia globale. Ecco, io pensavo a queste cose qui.
È febbraio, diventerà marzo tra 10 minuti e ci ritroveremo tutti in guerra. Tra donne che non vogliono essere festeggiate un giorno per poi essere dimenticate gli altri 364, uomini che non sanno se la mimosa guadagnerà loro un sorriso o una sgridata, altre donne che prenotano la “donnata” con colleghe che conoscono poco perché in realtà di amiche vere non ne hanno.
Nonostante il mio diffuso ottimismo esistenziale, le questioni di genere sono un argomento che tende a tirare fuori la nichilista dentro di me, ed erano due anni che avevo in mente di scriverne sul blog.
In particolare avevo in mente di parlare di tre cose che in questo periodo si tendono a sovrapporre con facilità, eppure che raramente vanno a braccetto: femminismo, sorellanza e solidarietà femminile.
Che è una cosa abbastanza illogica, se ci pensiamo.
Per come la vedevo io da adolescente, doveva funzionare più o meno così: qualsiasi donna sia femminista dovrebbe volere parità di diritti per tutto il genere, e per naturale conseguenza sentirsi parte di un gruppo paritetico (una sorellanza, appunto) e dimostrare a tutte le altre donne in difficoltà solidarietà e supporto.
Poi però sono cresciuta, sono entrata nel mondo del lavoro, e ho scoperto che molte donne fieramente (o rumorosamente) femministe si battono soprattutto per il proprio diritto a un pari trattamento, non necessariamente per quello delle altre.
Ho scoperto che se in un’azienda una donna arriva in posizioni manageriali lo fa a volte anche facendo finta di non essere una donna, mimetizzandosi tra gli uomini, assicurandosi che dopo di lei nessun’altra abbia le stesse opportunità. Che non si sa mai il suo successo sia dovuto a una quota rosa che una collega potrebbe usurpare. La rabbia quando ho visto queste cose si è sempre mescolata a compassione per la povera crista che, raggiunto un traguardo importante dopo infiniti sacrifici, non riesce a levarsi dalla testa di non averlo meritato davvero.
Ho partecipato a riunioni di CNA Impresa Donna e sentito diverse imprenditrici parlare dei congedi di maternità e delle scelte di vita delle dipendenti esattamente come fanno molti imprenditori uomini. Anche qui ho spesso osservato in silenzio colpevole (perché il silenzio di fronte alle ingiustizie è sempre colpevole, di questo sono consapevole) misto a tristezza per le opportunità di fare la differenza perse da donne pur in gamba e coraggiose.
E poi è arrivato Instagram. Dove puoi ritrovarti tuo malgrado a soffiare il fidanzato a una cara amica (letteralmente sotto il suo naso, dentro casa sua), che per carità son cose che possono pure succedere a tutte, mi dicono, ma se ci fosse un barlume di spirito di sorellanza come minimo alla prima avvisaglia di amore ricambiato metteresti le carte in tavola con l’amica, chiederesti scusa, ti sentiresti una merda. Invece su Instagram puoi fare ennemila post sul femminismo, proclami di valori altisonanti, raccogliere i complimenti delle fan che ti vedono come una vate e lasciare che quel coglione vigliacco del fidanzato se la veda con la tua amica mentre i tuoi post ti hanno lavato la coscienza. O hanno semplicemente contribuito a pulirti l’immagine.
Il caso qui sopra è un caso super reale successo l’anno scorso a persone che sospetto conosciate anche voi che mi leggete. Quando ho messo in calendario questo post l’ho fatto con l’intenzione di scriverlo coi nomi e i cognomi per due motivi:
- prima di tutto perché trovo davvero osceno che una persona possa trarre profitto da un’immagine morale finta. La donna che ha soffiato il fidanzato all’amica ha un’attività in cui i suoi valori personali sono al centro della proposta commerciale. Quei valori sono un falso;
- poi perché il silenzio è colpevole, e non dire ad alta voce che quel che era successo era sbagliato mi faceva sentire colpevole, stare fisicamente male. Non puntare il dito contro quella falsità mi sembrava colpevole perché ne diventava complice.
Ma in questo post i nomi e i cognomi non ci sono, alla fine, perché pensando agli intrecci tra femminismo, sorellanza e solidarietà femminile, mi sono resa conto di una cosa: che il fidanzato coglione e vigliacco non ci avrebbe rimesso dall’essere esposto.
Se il femminismo è battersi per raggiungere pari opportunità, non necessariamente gli stessi uguali diritti ma diritti equivalenti. Se la sorellanza ci aiuta a sentirci tutte nella stessa barca. Se la solidarietà femminile si manifesta nell’offrire una mano quando l’altra inciampa, nello starle di fianco per aiutarla a difendersi dai colpi, nel farle la scaletta per aiutarla a salire con noi.
Se insomma queste tre cose sono davvero interconnesse (e per me lo sono), questo post ha l’opportunità di ricordarcelo tra noi, e di provare a cancellare il ricordo di tutte quelle volte in cui altre donne mi hanno fatto dire “preferisco lavorare/stare con uomini che almeno so come difendermi.”
La donna che sta andando in giro con la morale falsa se la veda con la sua coscienza, alla quale dovrà spiegare non tanto come abbia fatto a innamorarsi del compagno di un’amica (che gli errori li facciamo tutte), quanto perché non abbia avuto il coraggio e la sensibilità di affrontare la cosa da donna, invece che da uomo.