• Passa al contenuto principale
  • Passa al piè di pagina

babepi

styling • strategy • teaching

  • Barbara
    • FAQ
  • Cosa faccio
    • Stile
    • Strategia
    • Formazione
    • Lifestyle Design
    • 1 ora di me
  • Il mio blog
  • Dove trovarmi
    • Newsletter
    • Privacy policy
    • Termini e condizioni
  • English

cura di sé

Cosa vuol dire per me progettare uno stile di vita

Marzo 6, 2020 da Barbara

Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana, prima di avere un esaurimento, organizzavo matrimoni. Avevo un modello di business straordinariamente personale eppure del tutto insostenibile psicologicamente. Come spesso mi accade non avevo fatto tesoro dei miei stessi consigli, o lo avevo fatto solo in parte.

A distanza di quasi tre anni, pur non avendo risolto tutti i miei errori di allora, posso dire di essere riuscita a disegnarmi uno stile di vita sostenibile e che mi fa stare bene. Non a caso parlo di stile di vita e di disegnarlo, perché ho sempre l’impressione che parlare di organizzazione, tempo, e vita o lavoro sia riduttivo e limitante.

Qui è dove mi prendo lo spazio per spiegare compiutamente di cosa parlo quando parlo di progettare uno stile di vita.

Sono arrivata a pensare in termini di “lifestyle design” nel 2016, per lanciare una serie di servizi personali di strategia e organizzazione (sono di nuovo disponibili, qui). Si trattava di consulenze create intorno alle mie capacità di organizzazione, alle mie conoscenze di strumenti utili a pianificare e dare forma alle strategie, e al mio approccio incondizionatamente dalla parte dei miei clienti.

Per la prima volta avevo deciso di mettere tutto questo al servizio di ogni donna che avesse difficoltà a ritagliarsi una vita che rispecchiasse davvero la propria identità e i propri desideri, senza farsi influenzare dalle aspettative esterne.

Cosa intendo per lifestyle design

A prescindere dalla scelta del 2016 di un termine inglese per amore di brevità, il concetto di “disegnarsi uno stile di vita” mi piace per diversi motivi.

Tanto per cominciare quando si parla di stile di vita il lavoro non è necessariamente centrale.

Trovo che gli approcci che danno per scontato che la vita di una persona sia determinata dalla sua professione, da ciò che fa per lavoro, partano di per sé con un bias culturale che rischia di silenziare le reali aspirazioni della persona.

Per intenderci, il percorso Designing your life di Dave Evans e Bill Burnett, giunto a fama planetaria proprio nel 2016 con un libro dallo stesso titolo, pur parlando di “vita”, è pensato per aiutare le persone a trovare una vocazione professionale che permetta loro di avere una vita “gioiosa” e “piena”.

Ma cosa succede se una persona, legittimamente, preferisce costruire la propria vita intorno a un’altra vocazione, non lavorativa? Cosa succede a chi sceglie un lavoro manuale e ripetitivo solo per avere uno stipendio e poi dedicare il proprio tempo libero ad altro? Un’autista di autobus non ha la possibilità di vivere una vita “gioiosa” e “piena”?

Il concetto che la vita di ciascuno di noi sia fortemente determinata dal lavoro che facciamo è molto culturalmente definito (a dirla tutta, molto Statunitense). Ma io, per esempio, non mi ci identifico affatto. Non ritengo che ciascuno di noi sia definito da ciò che fa, ma da ciò che è. Persino le persone per cui il lavoro è il cardine della propria esistenza (e per loro il metodo Evans e Burnett è sicuramente indicato) secondo me sono in quella condizione perché hanno fatto una scelta consapevole che deriva dalla loro identità.

Ma al contrario da ciò che Evans, Burnett e generazioni di motivatori Statunitensi pensano, il lavoro che scegliamo non può sempre essere determinato dalla nostra vocazione e motivazione. Spesso dipende da altri fattori, come la fortuna e le opportunità, che come sappiamo non sono pari per tutti, dalle scelte che altri fanno per noi, dal nostro genere, dal colore della nostra pelle, dall’accento con cui parliamo la lingua del paese in cui decidiamo di vivere. E potrei andare avanti.

Quello che nessuno può influenzare, se non glielo permettiamo, che non dipende così pesantemente da fortuna, tempismo, e scelte altrui, è la nostra identità. Chi siamo.

Quando parlo di stile di vita io intendo precisamente l’applicazione dell’identità di ciascuno di noi alla sua vita.

E questa scelta, lo scopo (anche non professionale) che abbiamo nella vita, con chi decidiamo di stare, quello che decidiamo di fare del nostro tempo, può compierla liberamente chiunque, a prescindere dalle sue scelte professionali.

Perché non parlare di vita e basta, allora? Perché la vita, come il lavoro, non dipendono soltanto da noi. Non viviamo in un tunnel di plexiglass che corre verso il nostro obiettivo, ma in ecosistemi fluidi in cui le scelte microscopiche di un bambino dall’altra parte del mondo possono avere ripercussioni anche su quello che succede a noi.

Pensare di poter controllare e influenzare complessivamente la propria vita, in ogni sua singola unità di tempo, è arrogante e del tutto irrealistico. Meglio quindi concentrarsi sullo stile che vogliamo che abbia, sulle sue linee guida. Sapere la direzione in cui ci vogliamo muovere, senza voler definire ogni singola tappa, ci permette di rimanere flessibili lungo il percorso e più reattivi agli imprevisti.

Nel 2016 non sapevo nulla del metodo di Evans e Burnett perché del libro ancora non si parlava in Italia, ma la scelta di usare il verbo “design” nel senso di “progettare” e pianificare insieme, per me è stata programmatica.

Il mio “design” non è un metodo, non suggerisco di applicare il design thinking alla costruzione del proprio stile di vita. Prima di tutto perché ritengo che non esista un unico metodo per fare le cose correttamente, proprio come non esiste un metodo adatto a tutti per imparare una certa disciplina.

La mia progettazione è un approccio, piuttosto.

Disegnare per me è tracciare su carta i confini di un’esistenza che ci farà sentire realizzati, per creare uno schema dentro cui muoverci più sicure, libere dal panico da pagina bianca che spesso ci porta a guardare più facilmente al passato che al futuro.

La metafora della scrittura per lo stile di vita ha sempre avuto grande risonanza per me, non a caso ho trovato una frase di Luisa Carrada relativa alla scrittura che spiega benissimo il mio approccio allo stile di vita:

Il segreto per non cadere preda dell’ansia e del blocco della pagina bianca è… non avere davanti una pagina bianca. Riempiamola con il programma di viaggio, che definiremo via via con maggiore precisione. Non limita la nostra libertà, ci sbarazza invece di qualche patema d’animo.

– Luisa Carrada, Scrivere, che bello!

Un approccio per femmine

Come quando parlavo di lifestyle design nel 2016, anche quando lo faccio oggi mi riferisco a una consulenza per donne. Non è una questione di semplice posizionamento, ma è una scelta che si fonda sulla convinzione che le persone che più hanno bisogno di un percorso di “progettazione di stile di vita” siano femmine. Donne dalla nascita o dalla loro scelta di diventare donne, poco importa.

Le aspettative e gli sguardi del mondo sono innegabilmente più pesanti sulle spalle delle femmine della nostra razza, non foss’altro perché la biologia apparentemente fa gravare su di noi l’obbligo della procreazione. Anche per quello il corpo delle donne è terreno di battaglia dalla notte dei tempi.

Per una femmina (mi ostino a dire femmina e non donna perché questo è un discorso di genere, non solo di sesso) progettare uno stile di vita è anche un’azione politica, proprio perché spesso si dà per scontato che non ci sia nulla da progettare. Al massimo da scegliere se vuole una famiglia o no (e anche lì la “scelta” è raramente libera).

Offrire una consulenza di questo tipo solo alle femmine non è un modo per dire che la responsabilità di tenere in equilibrio le scelte di vita resta alle donne, è invece un modo per permettere loro di giocare ad armi pari, di offrire gli strumenti per scegliersi dei percorsi di vita senza farsi influenzare dalle aspettative, le opinioni e le richieste degli altri.

Nell’ultimo anno ho ricominciato a offrire consulenze di lifestyle design, e ora sono di nuovo prenotabili anche sul mio sito. Spero che questo post abbia chiarito cosa si cela dietro questa definizione di comodo. Soprattutto vorrei che avesse chiarito cosa non vuole essere.

Il lifestyle design non è né coaching né terapia né organizzazione personale

Non è coaching, perché non c’è alcun rapporto gerarchico tra una guida (io) e un’allieva.

In un percorso di lifestyle design tutte le analisi, le risposte, le decisioni e le scelte sono in mano alla persona che lo affronta. Il mio ruolo di consulente si esaurisce nel mettere a disposizione strumenti, cercarli quando ancora non sono noti, e offrire domande e ascolto, una cassa di risonanza per le scelte di chi affronta il percorso.

Potresti farlo da sola? Ovviamente sì, non ho inventato niente in termini di strumenti. Ma il mio contributo tutto personale è la capacità di ascoltare senza giudicare, davvero. Perché “vale tutto” per me è un principio guida.

Non è terapia perché non ha alcuna ambizione di risolvere o “curare” patologie, disagi, disturbi psicopatologici, di fare emergere aspetti inconsci.

Un percorso di progettazione è del tutto consapevole e attivo. Attinge sì a riflessioni, emozioni, desideri ma per lavorare sul fuori da noi, sull’impatto che possiamo avere su ciò che ci circonda. Non è un lavoro sul sé, ma sulla manifestazione di quel sé.

Ti serve una psicoterapia? Anche senza conoscerti per me la risposta è sempre sì. Un percorso di psicoterapia, qualsiasi tu ti possa permettere in termini di tempo, denaro, energia, servirebbe a tutti, secondo me.

Non è organizzazione personale perché non presuppone che si parta da un punto di partenza di disorganizzazione, da risolvere con l’applicazione di un metodo chiaro e univoco.

Un percorso di lifestyle design può avere senso anche quando pur essendo persone organizzate dobbiamo rivedere il nostro stile di vita nel suo complesso. E può capitare di dover ripetere un percorso di lifestyle design nel corso della vita, perché siamo cresciute o abbiamo cambiato idea o sono cambiate radicalmente le nostre circostanze.

Ti insegna a organizzarti? In parte sì, ma non è detto. Perché non è detto che sia un elemento che ti serve. È una consulenza e anche per questo si modula sulle reali esigenze di chi la richiede.

Spero di essere stata chiara e completa. Se così non fosse mi raccomando scrivimi e chiedi!

Archiviato in:cose di organizzazione Contrassegnato con: cura di sé, motivazione, pianificazione, trovare uno scopo

Fare yoga a modo mio

Dicembre 7, 2018 da Barbara

diario di babepi | yoga

Sono circa tre mesi che non faccio yoga e il mio corpo è in pezzi. Mal di schiena, tensioni muscolari, crampi e mal di testa sono il promemoria costante che non sono mai stata così fisicamente bene (anche in pesantissimo sovrappeso) come l’anno scorso in questo periodo, quando facevo yoga tre volte alla settimana. Così adesso ho un bel post-it rosa shocking che recita “YOGA!” nella bacheca improvvisata sopra al computer, per spronarmi a trovare di nuovo posto per questa attività nella mia agenda.

Conosco e ho sempre conosciuto decine di persone che praticano yoga da anni, ma devo il mio inizio a un’inserzione Instagram di DailyOM. Mi piace dirlo perché c’è tanto fastidio in giro a proposito dei metodi pubblicitari di Facebook/Instagram mentre io devo a loro la scoperta di un modo di amare il mio corpo che nessun indottrinamento di amici e parenti era mai riuscito a farmi provare. Ci trovo una metafora interessante in questa serendipità, perché il mio modo anticonvenzionale di arrivare allo yoga si riflette interamente nella mia pratica di yoga, che è del tutto a modo mio.

Tanto per cominciare faccio yoga rigorosamente da sola

Sono incapace di convivere con altri corpi senza sentire costantemente il peso del confronto. Non si tratta solo del confronto fisico, della comparazione tra curve, linee, altezze, pesi, colori e tono muscolare, ma anche del confronto competitivo. Ho smesso da tempo di fare attività fisica di gruppo proprio perché non riesco a non sentire un richiamo profondo ad essere la più brava e la più performante, concentrandomi ossessivamente sull’esecuzione. Siccome essere la più brava non mi è fisicamente possibile, in gruppo tendo a sfinirmi oltre limiti salubri e a ritrovarmi infinitamente stressata al termine dell’attività fisica.

Per questo non frequento palestre e l’unica attività di gruppo che pratico è il ballo, situazione in cui la musica e l’assenza di regole mi permettono di isolarmi e lasciarmi andare. Viceversa cammino un sacco. Possibilmente in orari in cui la gente lavora e con la giusta playlist nelle orecchie.

Fare yoga da sola, in casa, lontana da specchi e persone, mi permette di calarmi completamente nel mio corpo e ascoltarlo. È una sensazione splendida, perché lontano dalle ansie da prestazione il mio corpo (e non a caso anche io) funziona meravigliosamente e con una fluidità che non mi sarei mai aspettata. Sento i muscoli che si allungano, gli organi che si rilassano nella loro posizione, i nervi che si riconfigurano… e sto, semplicemente, bene.

L’altro motivo per cui faccio yoga da sola è che il modo migliore per coltivare una buona abitudine è rendere facilissimo e poco faticoso praticarla. Il fatto di non dover pagare, prendere appuntamenti, muovermi nel traffico, per fare yoga, garantisce che io lo faccia con maggiore continuità di quanto non farei se dovessi iscrivermi in palestra. Non solo, quando, come in questi periodi, per qualsiasi motivo non riesco a praticarlo, non perdo soldi investiti in abbonamenti o corsi.

Il mio yoga à la carte

Qualche sera fa, a una delle ennemila cene pre-natalizie che caratterizzano dicembre, mi sono ritrovata seduta a fianco di un’insegnante di yoga che ha cercato in ogni modo di convincermi del potere incredibile della pratica yoga in gruppo. Non dubito che ad altri possa fare quell’effetto, e forse il motivo per cui per me il costo psicologico ed emotivo di quell’esperienza è troppo alto è solo che con gli anni ho sviluppato una forma di social anxiety.

Ma uno dei motivi per cui preferisco non confrontarmi con un insegnante e/o un gruppo di praticanti è anche perché non condivido il pur comprensibile zelo dottrinale che circonda lo yoga. Chi lo pratica aderisce spesso a una filosofia precisa e complessa con un abbandono fideistico che solo in parte secondo  me è giustificato dal rigore che dovrebbe accompagnare ogni forma di esercizio fisico.

Invece il mio approccio complessivo allo yoga è decisamente à la carte. Il che significa che prendo della pratica yoga quel che voglio e come voglio:

  • la meditazione non ha mai fatto per me, quindi il mio yoga non prevede né mantra né respirazioni meditative
  • scelgo asana di cui sento il bisogno abbastanza a istinto, tendenzialmente le seguo secondo flussi continui senza riposo tra le diverse posizioni
  • mi concentro molto sulla respirazione (ma non pratico il Pranayama) ma mi limito ad eseguire una respirazione profonda e controllata perché trovo che mi faccia sentire più rilassata e flessibile
  • sudo un sacco. Il che mi fa un po’ strano perché mi ricorda sempre una scena di sesso a tre in una palestra di yoga da alta temperatura che si trova qui. Non metto il link ad Amazon perché la scena è al limite dello stupro.

Non sono qui a incoraggiare chi legge a seguire il mio esempio. Non ritengo sia necessariamente un “modo corretto” di fare yoga. Ma me ne frego, perché funziona per me e mi fa stare bene. Di “fare la cosa giusta” per il principio di aderire a modelli di perfezione ho perso la voglia.

Pochi maestri ma buoni

Una delle obiezioni più insistenti dell’insegnante con cui ho parlato l’altra sera, al mio modo di praticare yoga, è stata “ma non ti fai mai controllare da qualcuno?”. Che potrebbe riassumere bene la domanda che altri mi hanno fatto: “ma come hai imparato? Come fai a sapere se fai la cosa giusta?”.

Partiamo dal presupposto che ho praticato Pilates per anni, quindi ho una discreta abitudine a praticare movimenti lenti facendo grande attenzione alla posizione di ogni parte del mio corpo (Joseph Pilates ha creato la sua disciplina anche sulla base di alcuni elementi dello yoga).

Per il resto, ho cominciato a praticare yoga seguendo le lezioni video del corso di Sadie Nardini per DailyOM 21 Day Beginner Yoga. Di Sadie ho letto pessime cose in giro, e ho scelto di ignorarle per tre motivi:

  1. al termine del corso (che ho spalmato su un mese e mezzo circa) avevo perso una taglia (due nelle gambe) e facevo movimenti che non ricordo di essere stata in grado di fare neanche a 20 anni, quindi per me è stato efficace
  2. le istruzioni di Sadie sono molto precise e costanti per cui è facilissimo seguire i video e praticare allo stesso tempo senza perdere alcun passaggio, inoltre le lezioni si possono praticare con pochissimo spazio e quasi zero attrezzatura (all’inizio io usavo una coperta e due cuscini)
  3. lo stile di incoraggiamento, costante, positivo e completamente flessibile (suggerisce continuamente versioni semplificate e incoraggia a non strafare) di Sadie mi ha portato senza sforzo a forzare i miei limiti, proprio perché mi sentivo libera di non farlo.

Io ho trovato ciò che funziona per me, ma in circolazione ci sono tantissimi corsi e app con video e il livello è in generale molto alto, quindi le opzioni per chi vuole cominciare senza uscire di casa sono tantissime.

Su Instagram si può seguire anche Lydia Sasse, una mia ex cliente con cui sono rimasta amica a distanza, che insegna yoga in Irlanda ma pubblica spesso utili video. Le sue routine di face yoga e di yoga per potenziare il sistema immunitario sono semplici da seguire e molto efficaci.

L’unica cosa che sì, mi sento di consigliare, è questa: cercate bravi maestri ma diffidate dei guru. Quelli che “questo è il modo giusto di fare yoga”. Esistono almeno 5 interpretazioni dello yoga, e non sono un’esperta quindi anche quel numero è forse molto riduttivo. Nessuna di queste interpretazioni, se praticata con attenzione, mi pare risulti in danni fisici e/o psicologici, quindi mi sembra ragionevole affermare che chi ha scelto una sola interpretazione avrà le sue motivazioni ma sicuramente non è infallibile.

Gli strumenti che uso

In ultimo, col tempo ho imparato che una coperta e qualche cuscino non mi permettevano di praticare con la tranquillità che volevo, così ho investito in alcuni strumenti specifici:

  • un telo yoga antiscivolo, acquistato da Decathlon, perché ho capito che alla fine non mi serviva l’imbottitura di un materassino ma che la superficie non si muovesse sotto di me
  • due blocchi di sughero (sempre di Decathlon), perfetti per diversi usi. Peso giusto, facile maneggevolezza, li adoro
  • uno sgabello poggiatesta FeetUp (grazie ancora, inserzioni di Instagram!), per aiutarmi nelle inversioni. Per il momento l’ho usato solo per alcune asana di apertura delle spalle e lo amo molto. Non vedo l’ora di testarlo anche per il suo uso principale.

Adesso non mi resta davvero che ricominciare a ritagliarmi tempo per stare meglio con lo yoga.

Foto di copertina di Ben Blennerhassett/Unsplash.

Archiviato in:cose nonsense Contrassegnato con: cura di sé, fare yoga

Footer

babepi è Barbara

Dal 1997 babepi è il nickname di Barbara Pederzini, cioè io. Dal 2009 lo uso per lavoro, per proporre consulenze, contenuti e formazione a piccole e grandi aziende.

Vuoi saperne di più? Non mordo.

  • LinkedIn
  • Pinterest
  • Twitter

BABEPISTOLE

Iscriviti alla newsletter:

Dove trovarmi

Sono basata a Modena, ma seguo clienti in tutta Italia e nel mondo se serve.

Lavoro dal lunedì al venerdì, dalle 9:00 alle 16:00.

Scrivimi

copyright © 2023 · babepi di Barbara Pederzini · PIVA 03284240367
Privacy Policy · Cookie Policy
built with WordPress & Genesis Framework