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motivazione

Cosa vuol dire per me progettare uno stile di vita

Marzo 6, 2020 da Barbara

Tanto tempo fa in una galassia lontana lontana, prima di avere un esaurimento, organizzavo matrimoni. Avevo un modello di business straordinariamente personale eppure del tutto insostenibile psicologicamente. Come spesso mi accade non avevo fatto tesoro dei miei stessi consigli, o lo avevo fatto solo in parte.

A distanza di quasi tre anni, pur non avendo risolto tutti i miei errori di allora, posso dire di essere riuscita a disegnarmi uno stile di vita sostenibile e che mi fa stare bene. Non a caso parlo di stile di vita e di disegnarlo, perché ho sempre l’impressione che parlare di organizzazione, tempo, e vita o lavoro sia riduttivo e limitante.

Qui è dove mi prendo lo spazio per spiegare compiutamente di cosa parlo quando parlo di progettare uno stile di vita.

Sono arrivata a pensare in termini di “lifestyle design” nel 2016, per lanciare una serie di servizi personali di strategia e organizzazione (sono di nuovo disponibili, qui). Si trattava di consulenze create intorno alle mie capacità di organizzazione, alle mie conoscenze di strumenti utili a pianificare e dare forma alle strategie, e al mio approccio incondizionatamente dalla parte dei miei clienti.

Per la prima volta avevo deciso di mettere tutto questo al servizio di ogni donna che avesse difficoltà a ritagliarsi una vita che rispecchiasse davvero la propria identità e i propri desideri, senza farsi influenzare dalle aspettative esterne.

Cosa intendo per lifestyle design

A prescindere dalla scelta del 2016 di un termine inglese per amore di brevità, il concetto di “disegnarsi uno stile di vita” mi piace per diversi motivi.

Tanto per cominciare quando si parla di stile di vita il lavoro non è necessariamente centrale.

Trovo che gli approcci che danno per scontato che la vita di una persona sia determinata dalla sua professione, da ciò che fa per lavoro, partano di per sé con un bias culturale che rischia di silenziare le reali aspirazioni della persona.

Per intenderci, il percorso Designing your life di Dave Evans e Bill Burnett, giunto a fama planetaria proprio nel 2016 con un libro dallo stesso titolo, pur parlando di “vita”, è pensato per aiutare le persone a trovare una vocazione professionale che permetta loro di avere una vita “gioiosa” e “piena”.

Ma cosa succede se una persona, legittimamente, preferisce costruire la propria vita intorno a un’altra vocazione, non lavorativa? Cosa succede a chi sceglie un lavoro manuale e ripetitivo solo per avere uno stipendio e poi dedicare il proprio tempo libero ad altro? Un’autista di autobus non ha la possibilità di vivere una vita “gioiosa” e “piena”?

Il concetto che la vita di ciascuno di noi sia fortemente determinata dal lavoro che facciamo è molto culturalmente definito (a dirla tutta, molto Statunitense). Ma io, per esempio, non mi ci identifico affatto. Non ritengo che ciascuno di noi sia definito da ciò che fa, ma da ciò che è. Persino le persone per cui il lavoro è il cardine della propria esistenza (e per loro il metodo Evans e Burnett è sicuramente indicato) secondo me sono in quella condizione perché hanno fatto una scelta consapevole che deriva dalla loro identità.

Ma al contrario da ciò che Evans, Burnett e generazioni di motivatori Statunitensi pensano, il lavoro che scegliamo non può sempre essere determinato dalla nostra vocazione e motivazione. Spesso dipende da altri fattori, come la fortuna e le opportunità, che come sappiamo non sono pari per tutti, dalle scelte che altri fanno per noi, dal nostro genere, dal colore della nostra pelle, dall’accento con cui parliamo la lingua del paese in cui decidiamo di vivere. E potrei andare avanti.

Quello che nessuno può influenzare, se non glielo permettiamo, che non dipende così pesantemente da fortuna, tempismo, e scelte altrui, è la nostra identità. Chi siamo.

Quando parlo di stile di vita io intendo precisamente l’applicazione dell’identità di ciascuno di noi alla sua vita.

E questa scelta, lo scopo (anche non professionale) che abbiamo nella vita, con chi decidiamo di stare, quello che decidiamo di fare del nostro tempo, può compierla liberamente chiunque, a prescindere dalle sue scelte professionali.

Perché non parlare di vita e basta, allora? Perché la vita, come il lavoro, non dipendono soltanto da noi. Non viviamo in un tunnel di plexiglass che corre verso il nostro obiettivo, ma in ecosistemi fluidi in cui le scelte microscopiche di un bambino dall’altra parte del mondo possono avere ripercussioni anche su quello che succede a noi.

Pensare di poter controllare e influenzare complessivamente la propria vita, in ogni sua singola unità di tempo, è arrogante e del tutto irrealistico. Meglio quindi concentrarsi sullo stile che vogliamo che abbia, sulle sue linee guida. Sapere la direzione in cui ci vogliamo muovere, senza voler definire ogni singola tappa, ci permette di rimanere flessibili lungo il percorso e più reattivi agli imprevisti.

Nel 2016 non sapevo nulla del metodo di Evans e Burnett perché del libro ancora non si parlava in Italia, ma la scelta di usare il verbo “design” nel senso di “progettare” e pianificare insieme, per me è stata programmatica.

Il mio “design” non è un metodo, non suggerisco di applicare il design thinking alla costruzione del proprio stile di vita. Prima di tutto perché ritengo che non esista un unico metodo per fare le cose correttamente, proprio come non esiste un metodo adatto a tutti per imparare una certa disciplina.

La mia progettazione è un approccio, piuttosto.

Disegnare per me è tracciare su carta i confini di un’esistenza che ci farà sentire realizzati, per creare uno schema dentro cui muoverci più sicure, libere dal panico da pagina bianca che spesso ci porta a guardare più facilmente al passato che al futuro.

La metafora della scrittura per lo stile di vita ha sempre avuto grande risonanza per me, non a caso ho trovato una frase di Luisa Carrada relativa alla scrittura che spiega benissimo il mio approccio allo stile di vita:

Il segreto per non cadere preda dell’ansia e del blocco della pagina bianca è… non avere davanti una pagina bianca. Riempiamola con il programma di viaggio, che definiremo via via con maggiore precisione. Non limita la nostra libertà, ci sbarazza invece di qualche patema d’animo.

– Luisa Carrada, Scrivere, che bello!

Un approccio per femmine

Come quando parlavo di lifestyle design nel 2016, anche quando lo faccio oggi mi riferisco a una consulenza per donne. Non è una questione di semplice posizionamento, ma è una scelta che si fonda sulla convinzione che le persone che più hanno bisogno di un percorso di “progettazione di stile di vita” siano femmine. Donne dalla nascita o dalla loro scelta di diventare donne, poco importa.

Le aspettative e gli sguardi del mondo sono innegabilmente più pesanti sulle spalle delle femmine della nostra razza, non foss’altro perché la biologia apparentemente fa gravare su di noi l’obbligo della procreazione. Anche per quello il corpo delle donne è terreno di battaglia dalla notte dei tempi.

Per una femmina (mi ostino a dire femmina e non donna perché questo è un discorso di genere, non solo di sesso) progettare uno stile di vita è anche un’azione politica, proprio perché spesso si dà per scontato che non ci sia nulla da progettare. Al massimo da scegliere se vuole una famiglia o no (e anche lì la “scelta” è raramente libera).

Offrire una consulenza di questo tipo solo alle femmine non è un modo per dire che la responsabilità di tenere in equilibrio le scelte di vita resta alle donne, è invece un modo per permettere loro di giocare ad armi pari, di offrire gli strumenti per scegliersi dei percorsi di vita senza farsi influenzare dalle aspettative, le opinioni e le richieste degli altri.

Nell’ultimo anno ho ricominciato a offrire consulenze di lifestyle design, e ora sono di nuovo prenotabili anche sul mio sito. Spero che questo post abbia chiarito cosa si cela dietro questa definizione di comodo. Soprattutto vorrei che avesse chiarito cosa non vuole essere.

Il lifestyle design non è né coaching né terapia né organizzazione personale

Non è coaching, perché non c’è alcun rapporto gerarchico tra una guida (io) e un’allieva.

In un percorso di lifestyle design tutte le analisi, le risposte, le decisioni e le scelte sono in mano alla persona che lo affronta. Il mio ruolo di consulente si esaurisce nel mettere a disposizione strumenti, cercarli quando ancora non sono noti, e offrire domande e ascolto, una cassa di risonanza per le scelte di chi affronta il percorso.

Potresti farlo da sola? Ovviamente sì, non ho inventato niente in termini di strumenti. Ma il mio contributo tutto personale è la capacità di ascoltare senza giudicare, davvero. Perché “vale tutto” per me è un principio guida.

Non è terapia perché non ha alcuna ambizione di risolvere o “curare” patologie, disagi, disturbi psicopatologici, di fare emergere aspetti inconsci.

Un percorso di progettazione è del tutto consapevole e attivo. Attinge sì a riflessioni, emozioni, desideri ma per lavorare sul fuori da noi, sull’impatto che possiamo avere su ciò che ci circonda. Non è un lavoro sul sé, ma sulla manifestazione di quel sé.

Ti serve una psicoterapia? Anche senza conoscerti per me la risposta è sempre sì. Un percorso di psicoterapia, qualsiasi tu ti possa permettere in termini di tempo, denaro, energia, servirebbe a tutti, secondo me.

Non è organizzazione personale perché non presuppone che si parta da un punto di partenza di disorganizzazione, da risolvere con l’applicazione di un metodo chiaro e univoco.

Un percorso di lifestyle design può avere senso anche quando pur essendo persone organizzate dobbiamo rivedere il nostro stile di vita nel suo complesso. E può capitare di dover ripetere un percorso di lifestyle design nel corso della vita, perché siamo cresciute o abbiamo cambiato idea o sono cambiate radicalmente le nostre circostanze.

Ti insegna a organizzarti? In parte sì, ma non è detto. Perché non è detto che sia un elemento che ti serve. È una consulenza e anche per questo si modula sulle reali esigenze di chi la richiede.

Spero di essere stata chiara e completa. Se così non fosse mi raccomando scrivimi e chiedi!

Archiviato in:cose di organizzazione Contrassegnato con: cura di sé, motivazione, pianificazione, trovare uno scopo

30 giorni per occuparmi di babepi mentre lavoro in agenzia

Agosto 30, 2019 da Barbara

babepi 30 day challenge

Il primo post del 2019 doveva essere questo, ma diverso. Mi ero ripromessa di raccontare come ho imparato (soprattutto dalla lettura di Leo Babauta) a scomporre grandi idee e obiettivi ambiziosi in piccoli tasselli praticabili e realistici. In particolare, come spesso 30 giorni di micro-attività quotidiane ci permettono di raggiungere traguardi che in partenza sembravano inarrivabili.

Poi all’inizio dell’anno all’elenco dei miei clienti si è aggiunta un’agenzia, che prima mi ha affidato un incarico su un cliente, e poi mi ha chiesto di unirmi alla squadra per un anno. Ho esaminato la proposta per tre lunghi giorni. Se da un lato i vantaggi di ricominciare a lavorare in un team complesso e stabile per me erano evidenti e preziosi (avere una struttura con competenze chiare mi permette di concentrarmi su quello che so fare meglio, un’agenzia mi offre l’opportunità di lavorare su progetti più elaborati, con prospettive diverse, ecc), dall’altro la mia grande preoccupazione era conservare spazio e tempo per babepi e per i miei progetti personali di lavoro.

La doppia vita del freelancer in agenzia

La condizione della libera professionista che collabora per la maggior parte del tempo lavorativo con un’unica entità ma continua ad avere una propria attività è molto frequente, e del perché possa essere una strada interessante e stimolante ha scritto anche Chiara Battaglioni su C+B.

Perché diciamolo, se volessimo chiudere partita IVA e farci assumere lo faremmo, in fondo tra i vantaggi di avere una certa anzianità c’è il fatto di essere nella posizione di negoziare. Ma a volte può valere la pena sfruttare questo potere di negoziazione per tenere viva un’attività che ci regala gioia e nella quale ancora vediamo prospettiva. Che è quello che ho fatto io, seguendo anche i consigli di Giuliana Laurita ascoltati l’anno scorso. Ho negoziato l’ingresso in agenzia con tempi che mi permettessero di portare a termine i lavori aperti, ma anche tenendomi giorni e flessibilità per progetti miei per tutta la durata del contratto.

Avere fatto con cura una pianificazione dei miei obiettivi personali e professionali per l’anno mi ha aiutato a identificare in anticipo quali potevano essere i margini di flessibilità di cui avevo bisogno, e un retreat che avevo già in programma per i primi giorni di aprile mi ha permesso di adattare l’organizzazione professionale che mi ero data per il 2019 alle nuove condizioni.

Tempo per fare e tempo per organizzare

Quello che, nella mia ingenuità, ho lasciato sfuggire all’applicazione quotidiana dei piani che avevo fatto, è stato il tempo che un’attività autonoma comporta per mantenere viva l’organizzazione e la pianificazione, insomma il lavoro on the business, invece che in the business.

Il lavoro in agenzia mi impegna dalle 130 alle 160 ore produttive al mese, il che significa che satura e spesso supera la settimana da 30 ore lavorative che avevo scelto come modello di lavoro quando ho ripreso le attività di babepi a pieno ritmo. A questo tempo effettivo si aggiunge ovviamente quello per i miei progetti personali, per prepararli e coltivarli. In questa matematica neanche tanto complessa, trovare il tempo per curare il dietro le quinte della mia libera professione, scrivere questo blog, finire di tradurre il sito… (e la lista potrebbe continuare) sembra impossibile.

Insomma, è il banco di prova ideale per una sfida da 30 giorni come quelle che ho imparato da Leo Babauta! Il che è perfetto e terribilmente meta, perché mi ha permesso di recuperare la bozza di questo pezzo come primo post della nuova stagione, e allo stesso tempo perché mi ha ricordato un semplice strumento per risolvere quello che per me era diventato un problema.

Un obiettivo concreto

Come si fa a mettere le basi di una grande impresa in soli 30 giorni? Si comincia con un obiettivo ambizioso sì, ma misurabile (in inglese S.M.A.R.T.: Specific, Measurable, Assignable, Realistic, Time-related). Il mio l’ho riassunto così:

ritagliare ogni giorno almeno 30 minuti alle mie attività di lavoro personali, per poter arrivare a inviare la mia prima newsletter mensile il 1 ottobre

Ho scelto questo obiettivo perché mi offre una deadline che è di per sé un premio. Alla fine prevedo di inviare una newsletter molto dinamica, corta e poco commerciale, giusto per attivare un dialogo con un potenziale pubblico che neanche so se esiste. Quindi in buona sostanza se ci riuscirò ne trarrò immediatamente benefici (tipo: scoprire se c’è un potenziale pubblico!).

Piccoli passi per grandi risultati

Ma un conto è formalizzare un obiettivo e un conto è capire cosa bisogna fare ogni giorno per arrivarci senza perdersi d’animo e soprattutto senza perdere di vista la fine. Il primo passo è ovviamente identificare tutte le tappe intermedie che ci possono portare dal punto zero al risultato. La fase successiva è identificare ulteriori tappe intermedie fino ad avere scadenze sufficientemente vicine da non farci perdere motivazione.

In mezzo a questa tabella di marcia di deadline intermedie ci deve poi essere spazio per il cambiamento di approccio necessario per raggiungere l’obiettivo. Perché se per raggiungere un obiettivo, tipo dimagrire 5 kg, per dire, fosse sufficiente puntare a perdere mezzo chilo a settimana… entrerei in una 44! Invece, dietro a ogni grande obiettivo che fino a quel momento non abbiamo raggiunto, c’è di norma un cambiamento di passo richiesto. Nel mio caso, come scrivevo prima, fare uno sforzo concreto per ritagliare spazio per le attività di babepi con una certa regolarità.

Del dettaglio di come funzioni mettere in atto un cambiamento attraverso il meccanismo delle abitudini ho già scritto per C+B. In pratica si tratta di “addomesticare il tuo corpo a compiere un’azione senza quasi pensarci” attraverso la ripetizione regolare di questa azione.

Nel mio caso, ecco un elenco delle attività settimanali che proverò a ripetere nel prossimo mese.:

  • sveglia tassativa alle 6 tutti i giorni feriali, alle 5 il martedì per fare spazio a 1 ora e mezza di scrittura sul blog. Conto di tornare a pubblicare un post ogni due settimane e siccome ho già l’elenco dei post fino a giugno, non dovrebbe essere difficile scriverli in 3 ore;
  • il lunedì mattina prima di uscire di casa dedico 30 minuti alla lettura di libri di aggiornamento;
  • il mercoledì mattina invece dedico lo stesso tempo a aggiornamenti al sito. Ho fatto un elenco su Trello per spuntare le attività;
  • tutti i giorni chiudo la giornata lavorativa con il controllo della mia email babepi e l’aggiornamento della pianificazione per la giornata per correre ai ripari se ci sono cambiamenti, e difendere le ore dedicate a babepi, recuperandole;
  • cerco di pubblicare un post su Instagram ogni giorno feriale, ma mi sono concessa che sia la prima cosa che salta perché ho promesso a me stessa anni fa che non avrei più pubblicato contenuti social solo per esigenze di piano editoriale o strategia. È la mia piccola ribellione;
  • tutti i giorni vado al lavoro in bici e lungo il percorso ascolto podcast rigorosamente ludici. Tipo scripted series (la versione podcast dei vecchi sceneggiati radio) o cose di lifestyle (cosmetici, costume, moda). Così libero la mente da pensieri professionali e sopporto meglio il carico di ore;
  • faccio la pausa pranzo fuori ufficio almeno tre giorni a settimana, almeno una volte alla settimana vado in biblioteca, dove c’è un bel chiostro dove mangiare e poi posso entrare a leggere. È un ottimo modo per resettare la testa a metà giornata e tenere alta la produttività nel pomeriggio;
  • dedico il sabato mattina alla parte admin, con due ore bloccate in agenda, cascasse una pannocchia.

Sembrano millemila cose, ma molte sono semplice applicazione consapevole di azioni che avevo già cominciato a intraprendere. Ho già cominciato questa settimana, con una specie di “riscaldamento”, anche per testare la fattibilità della mia idea. Diciamo che considerato che si trattava della settimana del rientro è andata abbastanza bene, mi sa che nelle Storie di Instagram vi aggiornerò di come andrà in futuro.

E questo è quanto. Sono tornata.

Immagine di copertina di Jordan Whitfield/Unsplash.

Archiviato in:cose di organizzazione Contrassegnato con: motivazione, obiettivi

Motivazione senza confronto

Novembre 23, 2018 da Barbara

diario di babepi | motivazione

Questo post è dedicato a tutti. Perché in un momento o l’altro nella vita di chiunque, più spesso tutti i giorni, capita di avere bisogno di trovare stimoli di motivazione non solo dall’interno, ma anche dall’esterno. No man is an island entire of itself et al. Nella mia esperienza il rischio di trasformare questa ricerca di motivazione in una camminata sui carboni ardenti del confronto è breve. Per questo ho messo insieme un piccolo saggio su come fare a trovare in giro gli stimoli giusti per portare a termine qualsiasi cosa senza farsi massacrare dal senso di inadeguatezza.

È per tutti, ma soprattutto per me.

Sono una persona caratterizzata da un’abbondanza di idee e da una scarsità di progetti portati a termine, in proporzione. Ho aggiunto “in proporzione” perché a guardare indietro con onestà devo ammettere di avere effettivamente realizzato molto. È che, rispetto a quanto avrei voluto o immaginato di portare a termine, questo molto risulta ancora poco.

Le cause di questa disparità di peso tra vocazione e realtà sono tante.

Cercando di essere sincera con me stessa le ho elencate qui:

  1. ho una piccola dipendenza da adrenalina, quindi tendo ad apprezzare di più la ‘botta’ ormonale che si accompagna alle illuminazioni improvvise, alle intuizioni, di quanto non apprezzi il prolungato stato di down che si accompagna al duro lavoro di fare a pezzi un’idea nella fase esecutiva del progetto;
  2. soffro di insicurezze varie, dalla sindrome dell’impostore all’ansia da prestazione, da un’impercriticismo più rivolto verso di me che all’esterno alla semplice sensazione di non essere abbastanza brava. Anche per questo per me le fasi esecutive sono una rincorsa di modifiche, aggiustamenti, verifiche e dubbi che fanno perdere slancio anche al progetto più solido;
  3. sono pigra, non ha senso girarci intorno, e tendenzialmente edonista (da qui si torna al punto 1).

Per controbattere la mia tendenza a partorire idee sterili ho adottato questa tecnica:

  • prima di tutto ne regalo a chi credo ne abbia bisogno e gli strumenti per realizzarli. Le regalo per due motivi: prima di tutto non ho il tempo di dedicarmi alla vendita di tutte le idee che mi vengono, poi non ho il tempo di occuparmi di fare da project manager di tutte le idee che mi vengono. Potrei tenermele a futura utilità? Dipende. Alcune magari ha senso, tutte costituirebbero solo clutter mentale e lavorativa;
  • ogni idea che mi viene va su una bacheca Trello che mi fa da incubatore, in cui ho creato uno schema di lista che mi incoraggia a declinare già l’idea in azioni concrete;
  • mi sono messa a studiare il meccanismo di motivazione, per cercare di capire come fare ad alimentarla.

Sul tema della motivazione, in un’epoca in cui tutti hanno almeno un poster o una cartolina motivazionale a portata di mano, ho trovato un bellissimo post dal piglio scientifico che preferisco: Motivation: The Scientific Guide on How to Get and Stay Motivated.

Di questo articolo che vi consiglio di leggere, rubo due concetti:

  1. la definizione di motivazione come non solo l’insieme delle forze mentali che ci spingono ad agire ma anche come quel momento in cui la fatica di fare qualcosa (nel mio caso mettere in pratica un’idea) diventa più facile da affrontare della fatica di non fare niente;
  2. l’idea che la motivazione più forte scaturisca dall’azione diretta piuttosto che dalle riflessioni che facciamo prima di cominciare; ne parlerò di più qui sotto.

Cos’è la motivazione

Lunedì scorso è uscito un mio articolo sul cambiamento su C+B, in cui ho definito la motivazione come il “profondo desiderio [per] una conseguenza positiva e durevole che il cambiamento […] porterà nella tua vita”. Non è stata una definizione improvvisata, ci ho lavorato di fino e di sinonimi per mezz’ora perché emergesse l’importanza di trovare stimoli da dentro invece che da fuori per agire un’evoluzione di sé. Lo stesso discorso però credo che valga anche per la motivazione necessaria per portare a termine un progetto o realizzare un’idea creativa. È infatti un profondo desiderio di vedere il risultato finale che ci sostiene nel duro lavoro.

Non a caso per molti è utile ricorrere alla visualizzazione di questo risultato per gestire i cali di motivazione lungo il percorso. Gli atleti si immaginano mentre solcano il traguardo, i manager visualizzano il momento in cui relazioneranno il fatturato al consiglio d’amministrazione, quando organizzavo matrimoni nella mia testa viaggiava sempre il film della giornata. La visualizzazione è senz’altro un ottimo strumento per sostenere la motivazione e ha spesso il vantaggio aggiunto di farci vedere in anticipo potenziali falle nel progetto o situazioni in cui potrebbero sorgere imprevisti.

Ma per moltissime persone, anche creative, è difficile visualizzare concretamente un risultato senza il supporto di immagini esterne. Ed è qui che l’occhio della motivazione si rivolge all’esterno in cerca di stimoli aggiunti, e si apre il rischio di scivolare nel confronto.

Il confronto è una merda

Perdonate l’interpretazione volgare della citazione di Roosevelt sul confronto come fonte di infelicità. La realtà è che il meccanismo di cercare in altri un elemento di sprone per aiutarci a uscire da un’impasse (questo è, in fin dei conti, la ricerca di stimoli esterni) ci pone da subito in una situazione di inferiorità e insicurezza. È come se il nostro subconscio dicesse: “ciò che sei, ciò che fai, quello che desideri, in questo momento non è abbastanza; guardati intorno, cerca qualcuno che sta riuscendo dove fallisci, guarda come ci riesce e prova a fare lo stesso”.

Il confronto è nella maggior parte dei casi una dichiarazione di rinuncia del valore di sé e uno strumento di conformismo. Fatto online poi, è un momento in cui di fatto rinneghiamo la nostra unicità per cercare sicurezza nel branco, nella speranza che assomigliare alla manifestazione esterna di ciò che percepiamo come successo ci permetta di raggiungere quel successo.

Solo in rarissimi casi è possibile avvicinarsi al confronto da una posizione di parità, forti della sicurezza del proprio valore e genuinamente in cerca semplicemente di un confronto tra pari, del tipo “ti racconto come faccio io e tu mi racconti come fai tu, insieme scopriamo come possiamo anche imparare l’una dall’altra per arricchire il nostro bagaglio di esperienza”. E questi rarissimi casi possono solo avvenire di persona e con persone che si conoscono bene e con le quali c’è rispetto reciproco.

Siccome però, nella quotidianità, è più facile e comodo affidarsi alla ricerca di stimoli online o guardando agli sconosciuti, mi sono costruita una strategia per approfittare delle informazioni disponibili ovunque senza rischiare di scivolare nel confronto.

Cinque avvertenze per affrontare la ricerca di motivazione senza sfociare nel confronto

La chiave principale di questa strategia per me è sempre difendere la propria identità, per questo gran parte delle avvertenze che adotto personalmente tendono a mettere distanza tra me e le mie motivazioni profonde e quelle degli altri.

Rimanere sulla superficie sensoriale

Foto, illustrazioni artistiche, bozzetti, musica e video ci toccano spesso a un livello sensoriale che è allo stesso tempo intimo e irrazionale. Hanno la capacità di scatenare idee e stati d’animo senza generare ragionamenti complessi che potrebbero portarsi dietro la mente analitica (e con lei dubbi, insicurezze, paure). Per questo la prima fase della mia ricerca di motivazione esterna quando sono in fase di stallo su un progetto è cercare stimoli sensoriali spesso da produzioni artistiche.

Guardare alle cose e non alle persone

Se lo stimolo sensoriale non è sufficiente, può essere utile a volte entrare più nel dettaglio e andare a vedere cosa/come fanno altri non tanto a risolvere il problema che ho incontrato ma proprio a sviluppare progetti simili. La mia avvertenza in questo caso è di scorrere link e profili social (ma anche giornali e vetrine) senza cercare di scoprire chi c’è dietro, ma spersonalizzando il prodotto del lavoro, cercando di evitare di scoprire età, stile di vita, passioni personali dell’autore.

È un meccanismo non semplice e alcuni lo ritengono sterile. Che senso ha guardare alla superficie delle azioni se non ne conosci la motivazione? Per me ha senso se sono forte dei meccanismi del mio progetto e se ho la capacità di riconoscere rispondenze tra le azioni che vedo e il mio progetto. Insomma, non “copio” la motivazione, ma stimolo la mia immaginazione a trovare azioni simili a quelle che vedo sulla base delle mie motivazioni intrinseche.

Imparare a riconoscere le emozioni negative, isolarle e netrualizzarle

Ovviamente in pratica è quasi impossibile scindere azioni e persone, soprattutto quando la ricerca avviene online, sui social network. In quel caso cerco di mantenere alta l’allerta sulle emozioni negative. Se osservare i processi di una persona reale online mi blocca invece di spronarmi, mi fa arrabbiare invece che darmi la gioia di procedere, mi provoca frustrazione rispetto alla mia vita… cerco di fare un passo indietro.

Questo spesso significa smettere di guardare del tutto le attività di una persona, ma anche cercare aiuto esterno per trovare rinforzo positivo e dedicarmi un momento di indulgenza e positività (andare a guardare i risultati di un mio progetto concluso ben fatto o leggere un messaggio di complimenti aiutano sempre).

Cercare fuori contesto

Se il momento è particolarmente critico trovo che valga la pena non rischiare neppure di trovarsi di fronte persone che ci provocano emozioni negative, per questo spesso svolgo le mie ricerche di stimoli e motivazione in situazioni fuori dal contesto in cui vivo e lavoro, e persino del progetto stesso che sto sviluppando.

Passare subito all’azione

Infine, nel mio viaggio alla ricerca di motivazione non vado mai sola, ho sempre con me Evernote Clipper e Trello, per salvarmi le idee che scaturiscono dagli stimoli che trovo in giro e trasformarle subito in azioni concrete inserite nella lista Trello del progetto, con scadenza e dettagli di strumenti e risultati. Concordo pienamente con James Clear che lo stimolo più forte per proseguire in un progetto e completarlo venga proprio dai momenti di azione piuttosto che da quelli di riflessione.

E questo è quanto. Spero che questa guida sia utile a quante più persone possibili e porti alla conclusione di tanti entusiasmanti nuovi progetti!

Foto di copertina di Ambitious Creative Co. – Rick Barrett/Unsplash.

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Dal 1997 babepi è il nickname di Barbara Pederzini, cioè io. Dal 2009 lo uso per lavoro, per proporre eventi, contenuti e formazione a piccole e grandi aziende.

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